La lunga anticamera di Filomena Giovannina Genovese
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di P. Dario Pili
(su Fiamma Nova, 30 aprile 1965, pp.27-30)
Per lei un vecchio frate è deciso a non morire Padre Prisco Pecoraro, un vecchio francescano del Convento di Santa Maria degli Angeli, in Nocera Inferiore, farebbe comodo avere a disposizione un re d’altri tempi o un potentissimo Cardinale di Santa Romana Chiesa; uno di quei re e cardinali i quali fra le tante premure più o meno regali o più o meno sante solevano avere an-che quella, indubbiamente santa, di intervenire, con la loro devozione ecc» il loro prestigio, presso i Papi per sollecitare la canonizzazioni di santi che ad essi o ai loro sudditi o ai loro protetti stavano particolarmente a cuore.
Intendiamoci: i santi non hanno bisogno di raccomandazioni; addirittura non hanno bisogno nemmeno della canonizzazione. Certo, però, che una canonizzazione rende più diffusa la loro testimonianza al Cristianesimo e il loro esempio può servire, in un raggio più vasto, a scuotere la pigrizia o ulteriormente infuocare il fervore spirituale dei fedeli.
Ma i santi, grazie a Dio, sono molti. La Chiesa prima di dichiararli santi ufficialmente e solennemente li sottopone a un severo esame: grazie, miracoli, fatti della loro vita, parole, scritti vengono esaminati da chi non ha pietà nemmeno per i santi. Proprio loro che in vita avevano riportato le più suggestive vittorie sul Diavolo, si trovano ad aver a che fare, dopo morte, addirittura con un «avvocato del Diavolo»: un reverendissimo monsignore, o un frate illustre avvezzo a frugare nelle pieghe più impensate dell’anima umana per vedere se davvero è tutto oro di santità quel che luccica di santità.
Si tratta di un complesso lavoro di commissioni, sottocommissioni, congregazioni, suggerito, non c’è dubbio, da una sapientissima volontà di raggiungere il massimo della certezza possibile agli uomini, ma che talvolta può subire, dati gli inevitabili limiti imposti dalla debolezza umana, le lentezze della burocrazia, come osiamo dire noi, profani e maligni. Lentezze che un intervento regale, una parola autorevole si pensa possano scuotere. Non è vero niente, è naturale. I santi aspettano; e rispettano la sapienza, le diffidenze, gli umori degli uomini.
In ogni caso, questo non è un problema per il Padre Prisco Pecoraro Lui il Santo, anzi la Santa, l’ha. Il Cardinale, il Re non ce li ha; ma non gliene importa. «Un Santo, mi ha detto Padre Prisco con quella sua flebile voce di vecchio ottantaseienne, deve sapersi difendere da solo». Padre Prisco ha fiducia nella santità e basta. Verso gli uomini delle curie ha un’enorme stima, anche quel tanto di saggia e umile diffidenza che gli vengono dalla sua età e dalla lunga consuetudine con gli uomini stessi. Pertanto ogni anno, d’estate, se ne viene puntualissimo a Roma, ospite del Centro nazionale del Terz’Ordine che lo ha avuto, trenta anni fa, primo vice Commissario generale. Da qui telefona alle Curie, alle Congregazioni, per avere un appuntamento con l’avvocato del Diavolo e con qualche illustre prelato. Non vuole raccomandazioni; desidera soltanto comunicare a quegli inaccessibili signori un po’ della sua fede nella sua «Santa»; quel tantino che li convinca a far andare le cose nel verso della Provvidenza; ma un po’ più alla svelta, se Dio vuole.
Una bambina tranquilla sotto il peso di un grande annuncio Ma chi è questa «Santa» per la quale padre Prisco lotta in silenzio da quarant’anni? E’ una terziaria francescana di Nocera Inferiore morta cento anni fa: Filomena Genovese. Il suo corpo è sepolto nella Chiesa dei frati Minori di Nocera Inferiore. Il suo ricordo è vivissimo nel popolo. Alla sua tomba accorrono ancor oggi uomini di tutte le classi sociali.
Una vita breve. Appena ventinove anni. Una vicenda comune a molti santi.
Come sempre capita alla stragrande maggioranza dei biografi dei santi, anche quello della Serva di Dio Filomena Genovese, ha cercato di collocarne la figura nella storia del suo tempo.
Una storia fuori storia Non sempre c’è un nesso immediato fra un santo e gli avvenimenti che gli succedono attorno. Né è necessario inventarlo, forzando la storia.
La fine del Regno di Napoli, l’inizio del Regno d’Italia, lo scatenarsi violento della lotta anticlericale sono fatti che non hanno inciso nella personalità di Filomena Genovese. O, almeno, non ci risulta in nessun modo in quale misura abbiano potuto incidere. La sua è una storia fuori della storia.
La posizione giusta, semmai, è nella storia, assai più vasta e più semplice, della santità cristiana e della testimonianza francescana.
In questo senso la figura di Filomena Genovese è una di quelle, non rare ma assolutamente eccezionali, che si formano attorno ai migliori conventi francescani soprattutto per quel fascino dell’eroico, per quell’incanto della povertà e per quel senso di libertà interiore che essi molto spesso riescono a comunicare. Messaggi, questi, tanto più efficaci quando si ripercuotono su coscienze vergini, e perciò ancora libere, come quella di una ragazza della tempra di Filomena Giovannina Genovese, la cui provenienza da una famiglia religiosissima garantiva, appunto, uno stato di eccezionale disponibilità a quella normalità eroica che c nella natura della santità cristiana.
Quando potremo avere biografie di santi immuni da ogni tentazione retorica e dotate di capacità di approfondimenti psicologici potremo meglio vedere l’eroismo cristiano della vita quotidiana dove oggi, per un inutile e sbagliato gusto dell’apologia e del panegirico, vediamo una presenza troppo disinvolta del miracolistico.
A questo proposito il padre Prisco Pecoraro è assai più preciso e coraggioso di quanto non si potrebbe sospettare da uno che è vice postulatore delle cause dei santi per la sua provincia francescana di Salerno, e che è, pertanto, l’avvocato difensore della Serva di Dio Genovese. Padre Prisco sottolinea «l’ordinarietà» della santità della sua famosa Terziaria francescana. Un’ordinarietà che nell’intelligente intenzione del padre Prisco, è atta a rendere testimonianza all’accessibilità della santità cristiana.
Nello stesso tempo, però, si tratta di un’ordinarietà fatta di tutta la coerenza cristiana che è alla base, o è senz’altro essenza, della santità: coerenza della carità, coerenza della semplicità, coerenza della castità. Ne vien fuori una figura di rarissima e affascinante finezza interiore. E’ questa finezza che padre Prisco vorrebbe vedere canonizzata: perché questa finezza serve al nostro tempo, ed è più credibile degli stessi miracoli.
Un posto nel mistero del dolore Del resto, il miracolo c’è anche nella vita di Filomena Genovese. E’ un miracolo sui generis; quel certo prodigio con cui ogni cristiano paga la felicità d’essere una creatura pulita, libera, una persona perbene, un’anima d’eccezione; diciamo pure un santo.
Attigua alla sacristia della Chiesa di Santa Maria degli Angeli c’è la stanza delle reliquie e degli ex voto: le pareti sono coperte, da una parte, di ceri anneriti dal tempo, ricordo di grazie ricevute; una singolare esposizione d’indumenti è l’omaggio di gente semplice miracolosamente guarita nel corpo dall’eccezionale virtù taumaturgica della Serva di Dio. Per terra due povere, piccole bare destinate a due bambini ormai cadaveri che la Serva di Dio ha sottratto miracolosamente alla morte e ridonato a una lunga vita. Protetta da un vetro una statuina di Sant’Antonio da Padova che s’intratteneva con la Serva di Dio in mistiche conversazioni. Questa statuina parla anche di un rinvio della morte della Serva di Dio.
Nel calendario della Provvidenza — racconta padre Prisco» mentre il suo volto s’illumina di una luce vivacissima — la morte di Filomena era fissata per il 12 giugno 1864. Per conforto della madre, che tanto aveva sofferto per la scomparsa di altri suoi figli, la data venne rinviata di sei mesi esatti. Manco a dirlo fu Sant’Antonio il latore dell’eccezionale notizia. La Serva di Dio visse ancora sei mesi, nell’attesa della morte che arrivò, puntualissima, il 12 dicembre 1864.
Eppure non è questa disinvoltura col miracolo che ci commuove, in questa stanza che è piena di speranza e di attesa: speranza e attesa che sprizzano da vari modesti involti che conservano le vesti, le scarpe, gli oggetti personali della Serva di Dio. Tutto sigillato, in attesa che Roma autorizzando il culto della Serva di Dio, autorizzi anche l’esposizione delle sue reliquie.
Più sconcertante e senz’altro più significativa è la disinvoltura di una lunga conversazione col dolore che dovette animare l’esistenza di Filomena Genovese. In un angolo della stanza delle reliquie uno strano seggiolone parla ancora una volta del mistero del dolore che è l’inevitabile prezzo della felicità umana. A questo seggiolone veniva legata Filomena quando era in preda agli attacchi del « ballo di San Vito », la ripugnante infermità che l’aveva afflitta per molti anni. Un’infermità che lei aveva chiesto, per quella lucida coerenza che spinge le anime migliori a desiderare di poter avere un posto preciso nel mistero della crocifissione di Cristo, nel mistero della vittoria e della vita cristiana che il Cristo ha offerto alla storia e agli uomini a prezzo di sconfìtta e di morte.
Questa donna, direbbe padre Prisco, non ha saputo far altro che soffrire. Come molti altri santi e stata un momento sanguinante della redenzione umana che continua nel tempo; una «parola» di dolore nel discorso della felicità degli uomini secondo una sconcertante logica cristiana per cui gli uomini vivono e sono felici perché c’è stato Qualcuno che ha pagato; perché c’è ogni giorno qualcuno che paga; magari una giovane donna legata a una sedia, in preda a orribili convulsioni.
Serviranno questo discorso e questa logica, si chiede il padre Prisco, a smuovere il complesso ingranaggio delle congregazioni romane e ottenere il decreto dell’eroicità delle virtù di Filomena Giovannina Genovese?
Padre Antonelli me lo ha promesso Il padre Ferdinando Antonelli, fino a ieri Promotore generale della Fede e oggi Segretario della Congregazione dei Riti, francescano come padre Prisco e suo amico, ha detto parole di speranza. E padre Prisco è sicuro che non ha detto queste parole per consolarlo. «Questa volta ho avuto l’impressione che faccia sul serio».
Il decreto verrà, da un momento all’altro. Prima una riunione di alti prelati, 1’«antepreparatoria», poi ancora una riunione, la «preparatoria», l’una e l’altra presieduta dal Prefetto della Sacra Congregazione dei Riti. E infine la Congregazione generale alla presenza del Papa: Paolo VI firmerà il decreto che riconoscerà «eroiche» le virtù di Filomena Genovese. E sarà finita una lunga anticamera: per una santa e per un vecchio frate che da quarant’anni vive, lavora e soffre per lei.
Questa speranza è già certezza sul viso sofferente e negli occhi luminosi di padre Prisco.
Ancora nella stanza delle reliquie il vecchio frate m’invita a pregare la Trinità perché l’anticamera di Filomena finisca bene e presto. Dall’alto di una parete il ritratto della Serva di Dio posa i suoi occhi su questo vecchio deciso a non morire finché in tutto il mondo non sia resa testimonianza alla sua santità fatta di dolore e di silenzio. Oggi si preferiscono canonizzatali più rappresentativi, dice il padre Prisco col suo solito filo di voce; rappresentativi di un’organizzazione, di un’ideologia, di una nazione, di una razza, di un colore.
La Genovese sembrerebbe rispondere al cliché antico del santo cristiano. I temi del dolore e del silenzio, dell’eroismo quotidiano e discreto, della coerenza senza limiti sono temi di ogni tempo, messaggi validi e necessari per ogni civiltà.
E’ per questo che i frati e la gente di Nocera aspettano la parola che viene da Roma: dopo di che quel viso che ora se ne sta in attesa, alto su di una parete, avrà il suo diadema di oro.
L’ho cercato, questo viso, fra le bambine di Nocera. Nella Chiesa di Santa Maria degli Angeli alcune si preparavano a rappresentare l’Annunciazione di Maria. La Madonna, immobile, genuflessa, aspettava l’Angelo. Un registratore scandiva le parole del Vangelo: «l’Angelo Gabriele fu mandato a una Vergine». La bambina era tranquilla sotto il peso del grande annuncio. Filomena Genovese doveva essere stata come questa bambina: chiusa in un mistero; felice e inconsapevole del fatto che ancora una volta, in Lei, Dio glorificasse la carne.
A due passi dalla bambina delI’Annunciazione, sotto una lastra di marmo annerita dal tempo, la Serva di Dio dormiva da cento anni. L’Annuncio si era compiuto. L’Angelo era venuto. Ben poche volte gli era riuscito di trovarla rapita in Dio; più spesso l’aveva trovata tormentata, disarmata, legata a una sedia.