Il Chiostro

La santità francescananell’artistico chiostro Santa Maria degli Angeli in Nocera Superiore La storia della Provincia Osservante di Principato (1575-1942),…

La santità francescana
nell’artistico chiostro 
Santa Maria degli Angeli 
in Nocera Superiore

La storia della Provincia Osservante di Principato (1575-1942), a cui apparteneva il Convento Santa Maria degli Angeli in Nocera Superiore, può essere ricostruita solo con documentazione indiretta. Infatti le fonti ufficiali, gli atti della Provincia, anteriori al 1800, si sono perdute, probabilmente nella confusione delle varie soppressioni degli Ordini religiosi. Parziale documentazione è conservata nelle cronache conventuali, le Platee, di alcuni conventi e in varie Cronache manoscritte, superstiti nella bufera illuministica, il decennio napoleonico (1805-15), e massonica anticlericale, il neo regno sabaudo d’Italia (1866).

Sufficiente luce, perciò, per la storia locale della Provincia, si ha grazie alle cronache sollecitate dal Capitolo generale di Toledo, 1645, che invitava le singole Province ad inviare alla curia generalizia dell’Aracoeli in Roma una relazione circa la fondazione dei conventi, le cose memorabili, il numero dei frati e quanto altro andava ricordato e che non era già contenuto nella Cronaca del Gonzaga (De origine Seraphicae Religionis Franciscanae eiusque progressi- bus, Romae 1587) proprio per dare ad essa una continuazione.

L’invito del Capitolo di Toledo divenne più pressante in quello celebrato all’Aracoeli in Roma nel 1651: sotto pena della privazione dell’ufficio, i Provinciali erano obbligati a fornire le informazioni richieste nei capitoli precedenti. Fu questa la spinta alla redazione delle cronache delle singole Province.

Il Convento Santa Maria degli Angeli, sorto dopo la cronaca del Gonzaga, entra in tre cronache manoscritte della seconda metà del Seicento:

1. P. Biagio da San Gregorio (+1657?) scrisse, nel 1619, l’Arbor ac descriptio Provinciae Principatus, manoscritto conservato nell’archivio generale dell’Ordine ma distrutto da eventi bellici.

Per fortuna il P. Biagio, nel 1655, integrò il suo primo lavoro con la Cronologia historica et legal descrittione, cioè Origine fondazione e divisione della Provincia oss.te di Principato dall’altra similmente oss.te di Terra di lavoro di Napoli dell’Ordine dei Minori di s. Francesco.

2. La Relazione, presentata al Capitolo generale del 1664, della Provincia Osservante di Principato, trascritta da P. Attilio Mellone e conservata a Nocera in un uno dei suoi quadernetti nel “Fondo P. Attilio Mellone” nella biblioteca di Nocera.

3. P. Bonaventura Tauleri d’Atina, Ministro provinciale nel 1693, scrisse  Fundationi di tutti i conventi della Provincia di Principato de’ Minori Osservanti di s. Francesco.

Le tre cronache sono le fonti primarie delle notizie storiche sulla fondazione dei conventi della Provincia di Principato. Quello di Santa Maria degli Angeli in Nocera dei Pagani  è enumerato al 3° posto nell’elenco dei conventi della Provincia.

Assente nella Cronaca di Francesco Gonzaga del 1583, Santa Maria degli Angeli in Nocera dei Pagani entra in tutte le cronache del ‘600. La costruzione del convento, infatti, iniziò nel 1592 anche se la donazione del luogo e della chiesetta Santa Maria a Torre risale al 1589, essendo Ministro Provinciale il P. Girolamo Villani da Nocera dei Pagani. 

La scelta del luogo, nell’allora rione Grotte sorto intorno e sopra l’anfiteatro della Nuceria Alfaterna, zona periferica ma non distante dal centro della Nocera dei Pagani sviluppatasi nei casali che oggi costituiscono il centro della città di Nocera Inferiore, rispondeva ai requisiti degli orientamenti degli Osservanti: località periferica ma non lontana dal centro cittadino. 

I frati assunsero l’impegno pastorale della piccola comunità cristiana rurale e il convento cominciò ad essere centro di irradiazione di vita francescana ma anche sede di formazione culturale e punto di partenza per l’apostolato della predicazione nel territorio dell’Agro e della Regione. Un ruolo che, nel corso dei secoli, per il convento S. Maria degli Angeli (volgarmente più conosciuto come San Francesco al Campo) e per i frati si è sempre più accentuato. 

Santa Maria degli Angeli ha poco più di quattro secoli di storia. Infatti, la chiesa, antica parrocchia rurale dal titolo Santa Maria della Torre, fu ceduta ai frati nel 1589 da Mons. Sulpicio Costanzo, Vescovo di Nocera dei Pagani. Nello stesso anno un benefattore napoletano, Antonio Manzi, donò ai frati una casa e un orto su cui, nel 1592, iniziò la costruzione del convento, ad un solo piano. 

Il ‘700 è il secolo d’oro per Santa Maria degli Angeli: ristrutturazione della chiesa, completamento del refettorio, affrescatura del chiostro, aggiunta di un secondo piano (completato solo nel 1929), istituzione della biblioteca. Il frate che, nelle prime due decadi del secolo, maggiormente si adoperò per la valorizzazione e l’arricchimento del convento fu P. Gioacchino da Nocera.

Con la soppressione napoleonica (1811) del convento di san Diego all’Ospedaletto in Napoli, crebbe sempre più l’importanza di Santa Maria degli Angeli che divenne sede delle curie provinciali della Provincia Osservante di Principato (1864-1942) e della Provincia Salernitano-lucana dell’Immacolata Concezione (1942-53) e degli studi di filosofia e/o di teologia fino al 1972.

Il convento scampò fortunosamente alla soppressione napoleonica e la dilazione alla sua chiusura, concessa nel marzo 1815, fu provvidenziale perché poco dopo il ritorno dei Borboni pose fine al decennio francese.  

 Il convento, invece, fu soppresso nel 1866: i locali e il giardino furono incamerati e donati al Comune; la chiesa rimase aperta al culto e affidata a tre frati nocerini (P. Vincenzo, P. Anselmo e P. Giuseppe). Solo nel 1880 i frati poterono rientrare in convento, ovviamente pagando un fitto al Comune. 

Per il solo diritto della forza, il neo Stato italiano unito dagli ideali risorgimentali, ma mosso da spinte massoniche e anticlericali, prima espropriò i frati dei loro beni e, poi, consentì che vi ritornassero da affittuari!

La storia dei vincitori, idealizzata ed esaltata, ancora non è stata sottoposta ad una revisione critica che faccia giustizia delle angherie subite dai vinti e dagli inermi frati che, dispersi nelle loro famiglie, gradualmente rientrarono nei conventi e per anni dovettero adoperarsi per ricomprare i propri conventi, di cui erano stati privati con una legge iniqua dello Stato! 

I frati, forse con la compiacenza delle stesse autorità locali e di eventuali altri acquirenti, riuscirono a ricomprare parte dei conventi. Essi, come persone fisiche e non come rappresentanti dell’Ordine, partecipavano alle aste di vendite anche per cautelarsi contro una non improbabile replica di soppressione da parte di uno Stato affamato di risorse economiche. 

Per i frati l’incubo di esser privati  dei propri conventi cessò solo con il Concordato del 1929 tra Santa Sede e Stato Italiano. E le Province Religiose avviarono le pratiche per il riconoscimento giuridico: la Provincia di Principato di Santa Maria degli Angeli, con sede in Nocera Superiore, fu istituita con decreto regio il 28 luglio 1932.

L’attuale convento Santa Maria degli Angeli è il risultato di ulteriori lavori effettuati negli anni tra il 1950 e il 1960; a seguito del terremoto del 1980 furono abbattute la torre campanaria (ricostruita nel 1998) e la parte interna del secondo piano per alleggerire il soprappeso sul chiostro. Nel 2001 il secondo piano, occupato per un decennio di un’emittente televisiva locale, fu ristrutturato come sede dell’infermeria provinciale.

Nel 2004 la Fraternità di Santa Maria degli Angeli è ritornata ad essere casa formativa per l’accoglienza del post-noviziato dei primi due anni di professione temporanea dei giovani aspiranti alla consacrazione nella famiglia francescana.

Dal 2005 sono stati realizzati lavori di ristrutturazione e di bonifica del piano terra (sala OFS, cantina, sala deposito) e l’istituzione della biblioteca moderna nell’ex refettorio; a cura della Sovrintendenza di Salerno, sono stati restaurati il chiostro e sei quadri (due in chiesa, uno in sagrestia e tre nel coro superiore). Inoltre, è stata restaurata l’antica cappella San Giuseppe, ridotta negli anni ’50 a deposito dopo la chiusura dell’omonima congrega.

Dal 1972 la chiesa è sede di parrocchia regolare, e da qualche anno, il convento è divenuto sede del Centro per il dialogo ecumenico interreligioso e con le culture per la diocesi di Nocera-Sarno e della Provincia Salernitano-lucana dei Frati Minori con periodici incontri formativi al dialogo ed iniziative ecumeniche.

La presenza dei Frati Minori a Nocera ha segnato, per quattro secoli, la storia del territorio dell’Agro e il convento si è qualificato come luogo dello spirito, del francescanesimo popolare (chi non ricorda il popolare “Pace e Bene”, il fratello questuante di san Francesco al Campo fr. Mansueto Contaldi!) e  luogo di cultura e di arte: il giovane Domenico Rea che coltiva la sua aspirazione culturale frequentando la biblioteca conventuale e dialogando con i dotti frati che, negli anni tragici della seconda guerra mondiale, lo introducono nell’universo della filosofia, della teologia e della letteratura.

La biblioteca conventuale, poi, è strettamente legata alla storia del convento, con il suo patrimonio culturale di circa 50.000 volumi, arricchito dai recenti fondi pervenuti alla biblioteca per espressa volontà dei donatori: P. Marco Adinolfi (Angri, 10.06.1919 – Cava dei Tirreni, 29.08.2005), biblista; P. Attilio Mellone (Montesano sulla Marcellana, 19.07.1917 – Cava dei Tirreni, 14.11.2005), teologo e dantista; e P. Valeriano Giordano (Sant’Antonio Abate, 16.08.1928 – Salerno, 01.01.2006), filosofo.

La biblioteca, dopo l’istituzione nel 1707, è cresciuta e si è specializzata nel corso dei secoli grazie ai continui lasciti di frati cultori ed esperti in varie discipline. Tra gli altri, vanno menzionati per l’abbondanza dei loro fondi: P. Gioacchino da Nocera (+ 1719), teologo e biblista; P. Pacifico Capobianco (Napoli, 08.05.1894 – Nocera, 06.07.1966), giurista e canonista; P. Bernardino Vitolo (Nocera, 18.01.1904-11.08.1974) letterato, teologo e mariologo; P. Enrico Buondonno (Gragnano, 22.10.1912 – Nocera, 26.01.2001), musicista.

 Questa pubblicazione intende riproporre, con un agile trattazione, all’attenzione del territorio dell’Agro i tesori di arte e di tradizione francescana di Santa Maria degli Angeli e rinverdire, così, quella assopita ma non estinta simpatia dei nocerini per il popolare san Francesco al Campo di Grotti.

Il lavoro, a cui hanno contribuito P. Remigio Stanzione, per la presentazione delle pitture, e P. Maurizio Buonocore, per lettura spirituale e teologica delle stesse, offre un’opportunità per comprendere e gustare immagini e contenuti teologici degli affreschi, riportati all’antico splendore dopo il restauro a cura della Soprintendenza B.A.A.A.S. di Salerno. 

Fr. Giacinto D’Angelo, ofm

            Guardiano

INTRODUZIONE

Il convento di S. Maria degli Angeli, come si presenta, denota una struttura che risale alla seconda metà del secolo XVII, ed è stato poi rifinito nei primi anni del XVIII secolo, come risulta dalla data 1706, segnata in basso sui primi gradoni del portale d’ingresso. Appena oltrepassata la soglia dell’entrata, si è attratti dalla grave e solenne altezza del chiostro, un tesoro di arte settecentesca dai massicci pilastri, dalle ampie arcate e dalle volte incrociate, affrescate da decorazioni di ottimo gusto.

La ricchezza e l’armonia dei simboli, dei medaglioni, delle cornici e delle figure coprono le volte e le pareti. Sotto i quadri, che si distendono sulle pareti in corrispondenza degli archi, sono riportate le insegne araldiche di illustri famiglie nocerine, che con il loro appoggio economico vollero manifestare la loro devozione verso i frati francescani.

Mons. R. Ammirante, vescovo di Nocera, così presentava il chiostro nel 1877:

 “Il chiostro di forma quadrilaterale (più esattamente dobbiamo dire che il chiostro è di forma rettangolare e misura mt. 20×17 con l’altezza di mt.7) è tutto dipinto a fresco, tanto nella parte superiore quanto nelle volte che lo coprono. Vi sono rappresentati alcuni fatti della vita dei più insigni frati dell’Ordine, del pari che in altrettanti medaglioni si vedono dipinte le immagini di parecchi cardinali della Serafica famiglia, e dei quattro Pontefici dell’Ordine medesimo: Nicolò IV, Alessandro V,  Sisto IV e Sisto V”.

 Da notare che nel cortile del chiostro si trova un pozzo di pietra calcarea con la data 1705, un pozzo sempre ricolmo di acqua fresca che era in corrispondenza con un pozzo esistente nel giardino, come annota P. Biagio di S. Gregorio nel suo manoscritto del 1655: “ vicino alle mura del refettorio v’è un bel pozzo d’acqua viva, e dicono che sia un fiume, che scorre di sotto …”.

P. Gioacchino da Nocera (forse di cognome Palumbo come risulterebbe da un suo stemma: un colombo) figura di primo piano della provincia religiosa del salernitano, essendo Ministro Provinciale dei frati minori dal 1706 al 1707, e guardiano del nostro convento nel 1712, con intuizione magnifica fu il promotore di tanta bellezza artistica nel chiostro che era stato completato alla fine del 600. Infatti, nel secondo medaglione a sinistra per chi entra nel chiostro, si trova dipinto il ritratto di P. Gioacchino con la seguente didascalia: “Molto Reverendo Padre Gioacchino da Nocera, chiarissimo predicatore, lettore giubilato ed ex-ministro provinciale, il quale F.F. anno del Signore 1712”. Che il chiostro sia stato affrescato intorno al 1712 risulta evidente dalla didascalia riportata sopra in italiano, essendo l’originale scritto in latino abbreviato. Da notare che le lettere F.F. stanno in latino per “fieri fecit” cioè “fece fare”.  Nel corridoio di entrata, presso la portineria, P. Gioacchino fece dipingere in quattro medaglioni, oltre il proprio ritratto, quelli dei fratelli P. Bonaventura e P. Giovanni Battista d’Atina e di P. Bonaventura da Tramonti, forse perché erano stati insieme come frati e superiori o anche benefattori del nostro convento.

Secondo A. Braca della Sovrintendenza dei Beni Culturali di Salerno, gli affreschi sono da attribuire al pittore Filippo Pennino, artista di origine beneventana, che svolse la sua attività nella prima metà del 700 tra Salerno, Vietri, Cava e Nocera. Certamente il detto Pennino, non avendo una grande conoscenza della storia francescana, dovette essere guidato da un personaggio di vasta cultura sacra e umana, umanistica e specificamente francescana, autore anche delle didascalie in commento ai simboli per lo più biblici delle volte del chiostro, e alle immagini dei santi affrescati.  L’intensa carica teologica e serafica dei dipinti indica che il pittore seguì le direttive di un dotto frate minore, perché tutto il chiostro è ricco di significato francescano. Allora non c’è alcun dubbio che l’ideatore, il regista di tutto il lavoro è stato P. Gioacchino da Nocera insigne teologo e guardiano dell’epoca. È anche manifesto che il testo di riferimento e d’ispirazione sia stato un’opera in due volumi del 1710 dal titolo: “Il giardino serafico” edito P. Pietro Antonio di Venezia, il quale nella parte seconda “espone li Santi, Beati, Martiri, Confessori, che fiorirono nell’Ordine Francescano …”, e nella parte terza “… contiene in ristrettole vite dei Sommi Pontefici, e Cardinali, il numero dei Patriarchi, Vescovi, Arcivescovi, e altri gran prelati che fiorirono nell’Ordine Serafico ”.

È ovvio che la galleria artistica del chiostro vuole significare l’esaltazione dell’Ordine Francescano con la raffigurazione di episodi della vita dei Santi, con la presenza ai lati di grandi personalità come Sommi Pontefici e Cardinali “… che a tal grado furono assunti da Santa Romana Chiesa ”.

Infine è opportuno mettere in risalto una intuizione particolare di P. Gioacchino, che è quella di inserire in tutti i riquadri la presenza della Vergine Maria  insieme al suo figlio Gesù quasi sempre sotto forma di bambino, in atteggiamento di amorevolezza e di protezione verso i santi affrescati. Questa intuizione è dettata da una realtà evidente, perché il convento e  la chiesa hanno il titolo di Santa Maria degli Angeli, titolo della chiesetta della Porziuncola ad Assisi che vide le origini della fraternità francescana. 

Un’altra particolarità presente in tutta la galleria del chiostro riguarda la cura diligente  di riprodurre la figura della Vergine Maria sempre allo stesso: vestita con una tunica rosso-porpora  e ricoperta da un manto azzurrino. 

Un tentativo di lettura spirituale e teologica

delle pitture del chiostro

Nel ciclo pittorico del chiostro del convento S. Maria degli Angeli attribuito al pittore Filippo Pennino, è possibile individuare tracce della storia dell’Ordine Francescano intrecciate con temi spirituali e teologici. Le decorazioni che si possono ammirare, oltre a rendere l’opera originale rispetto ad altri cicli pittorici, ci permettono di fare un cammino spirituale e teologico. Infatti, il grande valore didascalico delle decorazioni riempie il cuore e arricchisce la mente dell’osservatore, sia che esso sia un esperto estimatore d’arte, sia che si tratti di un osservatore alle prime armi.

È possibile comprendere che il percorso tracciato dall’artista, sicuramente sotto l’attenta guida dei frati del convento, sembra richiedere una chiave di lettura per poter partire in questo viaggio che ci proponiamo di fare tra i colori e le scenografie degli affreschi del chiostro. Entrando in questo “santuario” di arte e di spiritualità risulta evidente un binomio costante che riempie il tutto: la Vergine Maria e la santità francescana. 

Allora, vogliamo addentrarci in punta dei piedi nel nostro chiostro, dove ci lasceremo attrarre della bellezza delle immagini e tenteremo di conservare la ricchezza dei contenuti delle rappresentazioni, che vedono coinvolti i santi francescani e la Vergine Maria nella mente e soprattutto nel cuore.  

Sarà per noi un’esperienza di contemplazione, oltre che di interpretazione dei fatti narrati e simboleggiati, per la quale è necessario fermarsi in silenzio e ammirare le raffigurazioni e i loro colori con l’occhio attento di chi vuole penetrare con intelligenza il mistero della Bellezza (Dio).  Così, motivati e preparati entreremo nel “santuario” di Francesco e dei suoi fratelli poverelli e riusciremo meglio a comprendere il mistero di Gesù Cristo e della sua Vergine Madre.          

Metodo di lavoro 

In un primo momento analizzeremo gli affreschi che si trovano nell’ingresso del chiostro. In seguito passeremo ad analizzare gli affreschi negli scomparti delle campate dove sono dipinti episodi significativi della vita dei santi  più noti dell’Ordine con la Beata Vergine Maria. A ogni scomparto corrisponde una voltina nelle cui quattro vele sono affrescati dei tondi o medaglioni ornati con simboli e didascalie. Le figure affrescate nei medaglioni hanno un alto valore simbolico e allegorico, in quanto sono state poste a commento delle virtù dei santi e della Vergine Madre che sono affrescati. Lungo le pareti e le colonne vi sono altri tondi raffiguranti papi, cardinali e frati prestigiosi dell’Ordine, oltre agli stemmi delle famiglie facoltose nocerine, che presenteremo in appendice. 

Il lavoro è stato organizzato affinché  in un prima parte verrà descritta la scena affrescata nei singoli scomparti e in un seconda parte si tenterà di offrire un commento teologico spirituale della scena rappresentata, tenendo conto della simbologia e delle didascalie dei medaglioni delle voltine corrispondenti.

  1. L’INGRESSO

La lunetta sul portone d’ingresso

All’ingresso del chiostro, nella lunetta del portone, si nota un piccolo dipinto (un po’ coperto dal cemento) di S. Francesco e di S. Domenico in atto di sostenere con le loro spalle la chiesa pericolante, per sollevarla dalla rovina. 

Secondo le fonti, i santi Francesco d’Assisi  e Domenico di Guzman si sono incontrati a Roma a casa del Cardinale di Ostia, futuro papa Gregorio IX (2 Cel 148-150). Si afferma che il Cardinale, guardando alla loro santità, auspicava la possibilità di nominare vescovi e prelati tra i loro frati più illustri per dottrina, cultura e buon esempio. I due santi tentarono inizialmente di opporsi a questa ipotesi, anche se poi accettarono la volontà di Dio, che passa attraverso l’obbedienza ai suoi ministri. Nella richiesta del Cardinale Ugolino si può leggere il desiderio di continuare l’opera dei due fondatori, cioè contribuire a reggere la Chiesa attraverso i loro figli e seguaci anche nel futuro.   

Se accettiamo che il significato del reggere la Chiesa, ormai in rovina, si spiega con il passo delle fonti che abbiamo citato, allora possiamo ben dire che questo primo affresco, dipinto nella controfacciata dell’ingresso del chiostro, diventa l’introduzione al percorso spirituale, la presentazione  di  questo “santuario” fatta dallo stesso Padre Serafico insieme a san Domenico. Così siamo invitati ad entrare e a porci alla scuola di tanti uomini e donne, che con la loro fede in Gesù Cristo e la loro forte devozione alla Vergine Maria hanno contribuito nel tempo a mantenere in piedi la Chiesa di Dio, soprattutto in momenti di forte cedimento. 

San Francesco riceve le stimmate 

Sotto la volta dell’ingresso un dipinto  postumo rappresenta san Francesco sul monte della Verna, che riceve le sacre stimmate da Gesù Crocifisso in forma di serafino librato nell’aria. Il santo, stando in ginocchio, prega con le braccia distese il Crocifisso, che a guisa di raggi di luce gli imprime le ferite della sua crocifissione nelle mani, nei piedi e nel fianco destro, per cui il poverello di Assisi viene trasformato nel ritratto visibile di Gesù sulla croce. La cima della Verna è illuminata da una luce che proviene dall’alto, mentre più giù si intravedono la chiesetta e il piccolo convento dei frati. 

Secondo le fonti, Francesco di Assisi, due anni prima della sua morte, mentre pregava sul monte della Verna, dove si era ritirato per la quaresima in onore all’arcangelo Michele, vide un serafino, con sei ali infuocate e luminose che discendeva dalla sublimità dei cieli. Tra le sue sei ali apparve l’effige di un uomo crocifisso che aveva mani e piedi confitti alla croce. Il santo si stupì di questo fatto e, mentre tentava di dare una spiegazione, vide apparire nelle sue mani e nei suoi piedi gli stessi segni dei chiodi che aveva visto in quell’uomo crocifisso della visione e inoltre il suo fianco destro era come trapassato da una lancia (1 Cel 95). S. Bonaventura, successivamente, affermerà che il verace amore di Cristo aveva trasformato l’amante nell’immagine dell’amato (Legenda Maior 13,5). 

La gloria dell’Immacolata

A destra, sulla parete d’ingresso, in alto come in trionfo, è rappresentata la vergine Immacolata come viene esaltata nell’Apocalisse: “Una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle”. La donna di nome Maria è vestita di una tunica rossa e coperta da un manto azzurrino, nonché illuminata dai raggi solari dello Spirito Santo. Nella visione non manca la figura del serpente infernale, che viene schiacciato dal suo calcagno immacolato, secondo la lettura cristiana del testo della Genesi: “Ipsa conteret caput tuum – Ella stessa ti schiaccerà il capo”. L’eterno Padre stende le braccia verso la gloriosa madre del suo Figlio, mentre Gesù volge il suo sguardo invitante verso i santi, tra i quali  si intravedono san Pietro con le chiavi in mano e san  Giuseppe col bastone fiorito; poi san Francesco e san Domenico uniti dal loro ideale religioso, S. Ludovico d’Angiò, il beato Giovanni Duns Scoto e san Tommaso d’ Aquino, e altri santi, che dal basso contemplano estatici, in atteggiamento di adorazione, la vergine Maria nella sua gloria.

In particolare, il francescano Giovanni Duns Scoto, il difensore dell’Immacolata Concezione, è rappresentato in ginocchio, con un volume aperto nella mano sinistra, con la penna nella mano destra e con lo sguardo adorante verso la vergine Immacolata. Anche un gruppo di frati e suore dell’ordine di san Francesco e di san Domenico rimangono rapiti dalla celeste visione. Però fa meraviglia che anche i frati domenicani siano raffigurati nella “Gloria dell’Immacolata”, quando sappiamo dalla storia che essi erano contrari al suddetto privilegio, che poi fu definito nel 1854 dal Sommo Pontefice Pio IX.  Infine, in alto, alla destra della Madonna, c’è ancora Gesù risorto, con il vessillo della risurrezione nella mano sinistra, il quale con espressione di godimento addita con la destra ai presenti la madre sua, esaltata nella sua glorificazione.

Da notare che l’affresco è stato quasi tutto rovinato da iniezioni di cemento e da muri tufacei messi a sostegno del campanile, detto pericolante in seguito al terremoto del 1980. Perciò presentiamo una ricostruzione discreta, ma completa, della “Gloria dell’Immacolata”, ottenuta dalla ricomposizione di varie foto scattate prima del sisma.       

Commento spirituale:

La gloria dell’Immacolata qui rappresentata è ricchissima di significato teologico e spirituale. Si tratta di una ricca composizione che vede la Vergine Immacolata protagonista della scena e punto di conversione di tutte le azioni dei diversi personaggi ritratti. 

In alto a sinistra si scorge la Trinità. Dio Padre creatore dell’Universo, che posa il suo sguardo amorevole sulla novella Eva che trionfa sul demonio tentatore. Il Figlio Redentore, che abbracciando la croce benedice un gruppo di santi a lui sottostanti e  indica loro la Vergine come modello e guida. Lo Spirito santificatore, rappresentato dalla colomba, che riveste la Vergine Madre del manto di grazia. In basso, una schiera di santi che volgono lo sguardo alla Donna vestita di sole, che appare nel suo splendore con le mani sul petto in segno di sottomissione e obbedienza, con i capelli sciolti, simbolo della verginità, con la luna sotto i piedi che allude alla sua stabilità rispetto alle lunatiche situazioni delle sorti umane. La Vergine Immacolata calpesta il serpente che rappresenta la costante insidia del male, che non si attacca alla sua persona. La corona di dodici stelle intorno al capo si ispira alla descrizione del libro dell’Apocalisse, dove la donna rappresenta la Chiesa di Cristo, mentre le stelle raffigurano i dodici apostoli. Questa donna nuova, avvolta dalla luce, indossa una tunica bianca e rosa, colori che  rispettivamente richiamano l’assoluta purezza di Maria di Nazaret e la sua partecipazione al mistero pasquale. Inoltre è avvolta in un manto azzurrino che sta a significare che è abitata da Dio e quindi per questo diventa, a sua volta, dimora in cui il Verbo viene ad abitare. Inoltre, in alto a destra, si scorge Gesù risorto che esce dal sepolcro reggendo con la mano sinistra il vessillo della croce rossa in campo bianco, segno di risurrezione, e con la mano destra indica l’Immacolata primo frutto della Redenzione.

In questa ricca composizione pittorica la Vergine Immacolata, illuminata dal Sole di giustizia, diventa ella stessa Luna, che riflette e orienta tutti gli uomini verso Cristo, unica via che conduce al Padre, nelle notti dell’umanità. E così orienta anche tutti noi, che ci accingiamo ad entrare nel nostro chiostro, per sostare e contemplarne il tesoro.   

Il Giudizio Universale

Descrizione:

A sinistra, sulla parete d’ingresso di fronte alla “Gloria dell’Immacolata”, si trova affrescato il Giudizio Universale. Secondo la dottrina teologica, nel giudizio finale o escatologico “Cristo verrà nella sua gloria con tutti i suoi angeli, e davanti a lui saranno riunite tutte le genti e sarà definitivamente messa a nudo la verità sul rapporto di ogni uomo con Dio”. 

Nell’affresco si scorge in alto la Madonna avvolta di luce celeste con la solita veste rossa e manto azzurro, che rimira al centro il Cristo giudice nel fulgore della sua divinità. Egli, nel segno della croce e con lo sguardo severo, condanna gli empi della terra che precipitano nel fuoco eterno, mentre l’arcangelo Gabriele guida i Beati verso la gloria del cielo, pieni di gaudio celestiale. In basso si notano anche dei morti usciti dai sepolcri, in attesa della risurrezione finale. Si legge nel Vangelo secondo Matteo che alla morte di Gesù “la terra tremò e le rocce si spaccarono: le tombe si aprirono e molti corpi dei santi che erano morti risuscitarono. Infatti, dopo la risurrezione di Lui uscirono dalle tombe, entrarono nella città santa e apparvero a molti” (Mt 27,51-53).

Commento spirituale:

L’immagine coglie un momento particolare della Parusia con delle caratteristiche che rendono il soggetto estremamente originale. L’artista descrive il ritorno di Cristo nella gloria sulla terra, che san Paolo nella Prima lettera ai Tessalonicesi descrive molto bene:

 “Il Signore ad un ordine, alla voce dell’arcangelo e al suono della tromba di Dio, discenderà dal cielo, e prima risorgeranno i morti in Cristo; quindi noi, i vivi, i superstiti, saranno rapiti insieme con loro tra le nuvole, per andare incontro al Signore nell’aria, e così saranno sempre con il Signore” (4,16-18). 

Un testo apocrifo, inoltre, aggiunge che il Signore arriverà nella sua maestà, preceduto dalla sua croce, per giustificare i vivi e i morti e a remunerare ciascuno secondo le sue opere (Apoc. di Pt 1), mentre l’evangelista Matteo afferma che i beati andranno alla vita eterna e i dannati al supplizio eterno (Mt 25,31-46).

Nel nostro affresco sembra che le immagini ritraggano proprio questi particolari. Si vede il Cristo glorioso che siede sul trono e da qui manifesta tutta la sua potenza, mentre si staglia di fronte a lui la Croce segno della giustificazione, e a fianco si intravede l’arcangelo Michele che ha in mano la bilancia, segno della giustizia di Dio. Sulla destra in basso, si intravedono alcuni morti risorgere e insieme a questi si scorgono due figure umane che volgono lo sguardo al Cristo. Potrebbero essere Adamo ed Eva recuperati definitivamente dal Redentore, sceso fino agli inferi per liberarli. Mentre, in basso sulla sinistra, si distinguono alcuni uomini precipitati nel fuoco eterno. Invece, in alto sulla destra si scorge la porta aperta della Gerusalemme celeste e lì ad accogliere i beati si intravede la Vergine Maria di rosso vestita e ricoperta di un manto color cielo. La Madre di Dio, primo frutto della Redenzione, è colei che  si fa trovare alla porta del cielo per soccorrere e aiutare i figli ad entrare e così a godere della gloria senza fine. 

  1. CHIOSTRO LATO NORD

San Ludovico d’Angiò

Descrizione:

Il primo affresco a lunetta, a sinistra di chi entra nel chiostro, rappresenta l’effigie di S. Ludovico d’Angiò, vestito del saio francescano e avvolto da un prezioso piviale, mentre alla sua sinistra un angelo sostiene lo scettro regale. La corona di re e la mitra di vescovo sono abbandonate su un tavolo coperto di un telo verde, e il pastorale è tenuto in mano da uno dei due chierici in veste talare e con la cotta. 

             Si sa dalla storia che Ludovico d’Angiò, dopo aver conosciuto i frati francescani, rinunziò al trono in favore di suo fratello Roberto, ed eletto poi vescovo di Tolosa a ventitré anni, volle prima vestire l’abito francescano e professare la regola serafica. La morte lo colse mentre era sul punto di recarsi dal papa per rinunziare al suo vescovato. Egli visse in umiltà e povertà e con una fervida carità verso i poveri.

Al centro della visione la Madonna col Bambino, rivestita di luce celeste e ornata in alto da un fino ombrello retto da un angelo, riceve dal santo un cestello di fiori con uno sguardo tenero e materno. In fine la didascalia annessa ricorda l’origine nocerina di S. Ludovico, nato nel castello di Nocera, il quale offre i fiori alla vergine Madre per il perdono del Dio del cielo a pro’ dei nocerini pentiti: “Alza gli occhi contrita al tuo Fattor / Nocera indi bandisci ogni timor/ offre a Maria quel tuo figlio i fiori/ che il ciel sdegnato smetta i rigor”.

Commento spirituale:

San Ludovico fin da ragazzo aveva manifestato la sua grande generosità, infatti si racconta che, un giorno aveva preso di nascosto del cibo per darlo ai poveri e così fu accusato e condotto con la refurtiva dal padre. Ma nel frattempo quel cibo si convertì in uno splendido cesto di fiori. 

Proprio i fiori, in quest’immagine, sono un elemento fondamentale. Vediamo san Ludovico che offre fiori alla Vergine Madre. Inoltre, fiori sono rappresentati negli ovali delle voltine corrispondenti al nostro affresco. 

I fiori rappresentati nella pittura, fin dall’antichità, sono posti come segno di speranza perché anticipano i frutti sugli alberi e anche come segno della bellezza destinata a perire in breve tempo, se sono stati raccolti. Nel nostro caso essi rappresentano la vita bella, anche se breve, e intensa di questo nostro santo che come sappiamo muore a poco più di ventitre anni. 

I fiori che porta nel cesto, nella scena del riquadro, non si distinguono, ma negli ovali delle voltine si distinguono bene e si leggono altrettanto le didascalie. Nel primo tondo, quello più vicino all’affresco, si scorge un fascio di giaggioli color viola. Questo tipo di fiore, che fa parte della famiglia dell’Iris, in alcune rappresentazioni indica la purezza e la bellezza. La didascalia che presenta (Non deerit virtus – non mancherà loro la bellezza) fa comprendere che questi fiori vogliono esaltare la bellezza della sua vita. Guardando verso destra si intravede che nell’altro tondo vi sono dei gigli in fiore e in boccio. Questo fiore indica la castità e la purezza del giovane santo angioino. Dalla didascalia (Olent omnibus – inebriano tutti con il loro profumo) si capisce che la vita di Ludovico, definito “giglio di verginità”, ha inebriato e ha stupito tutti quelli che a lui si sono accostati. Continuando ancora verso destra, si scorge ancora un tondo in cui è dipinto un fascio di tulipani. Sono il simbolo della preziosità delle cose terrene, la cui didascalia non si legge. Comunque, i tulipani simboleggiano la rinuncia alle cose terrene di questo principe santo, per possedere solo le cose del cielo. In ultimo, notiamo un tondo in cui sono dipinte undici roselline bianche. Dalla didascalia (Trahunt odore nitoreque solantur – attirano col profumo e deliziano col candore) si comprende che, come le rose,  che in questo caso rappresentano le anime benedette, attirano col loro profumo e candore, così l’anima santa di Ludovico ha attirato col profumo della sua vita tanti a Cristo e con il suo candore ha deliziato uomini e donne che hanno tentato di imitarlo.            

Santa Elisabetta regina del Portogallo

Descrizione:

Dopo san Ludovico, un dipinto pieno di luce illustra la figura di santa Elisabetta del Portogallo, la quale veniva chiamata dal popolo la “Regina santa”. Ella, rimasta vedova, diede ai poveri tutti i suoi beni e si chiuse nel monastero delle clarisse, indossando l’abito di santa Chiara e professando la Regola del Terz’Ordine di S. Francesco. 

Nel riquadro la Vergine SS.ma col Bambino, in un nembo di luce e col consueto abbigliamento, guarda con tenero affetto la regina Elisabetta, la quale splendente degli abiti regali e con la collana d’oro al collo (anche i capelli sono d’oro), offre a Maria col Bambino la sua corona di regina, mentre a sua volta la Madonna le addita l’abito della penitenza che viene sorretto dagli angeli. La scena è molto graziosa e lucente, e dietro la santa, a sinistra, si nota un paggio vestito di rosso, che tiene alzato lo strascico del suo manto regale. La didascalia  dice: “A salutar Maria per farsi avvezza/ del Tago il regno Elisabetta sprezza/ e perché in vita disprezzò corona/ nova fulgente in cielo Maria le dona”.   

Commento spirituale:

Si racconta, che dopo i funerali del marito si mise in cammino per S. Giacomo di Compostella per offrire ricchissimi doni e moltiplicare le sue elemosine. Ritornata a corte pensò di rinunciare interamente alla vita regale, per seguire attraverso lo spirito francescano il Signore. L’immagine che la rappresenta nel chiostro la vede proprio nell’atteggiamento di offrire la corona alla Vergine, mentre dall’alto due angeli le portano il saio. 

Nei medaglioni delle vele della voltina corrispondente all’immagine vi sono affrescati simboli che ci aiutano a spiegare le motivazioni e le ragioni della conversione della santa del Portogallo. Nel tondo più vicino alla parete si scorge un grosso diamante. Dalla didascalia (Auro pretiosor – più prezioso dell’oro) si capisce ciò che la spinge a fare tale scelta:  è l’amore di Dio, che come il tesoro nascosto e ritrovato, di cui parla il Vangelo, è un diamante più prezioso dell’oro. Proseguendo verso destra si intravede in un altro tondo un giogo posto su di un tavolo. Dalla didascalia (Sic servire regnare est – sottoporsi al giogo della legge divina è regnare) si comprende un altro motivo per cui segue Gesù Cristo radicalmente. Se si vuole regnare si deve servire, come ha fatto il Maestro che si è chinato a lavare i piedi ai suoi, e questo Elisabetta lo comprese molto bene. Proseguendo ancora avanti non si vede l’altro tondo né si legge la didascalia. Invece, nel tondo seguente si vede raffigurata una stanza dal soffitto a cassettoni, e sopra un tavolo sono esposti preziosi monili. Dalla didascalia (Mors abscondita – nascondono rovina e morte) si capisce ancora un altro motivo per cui la santa sceglie la povertà. Aveva compreso perfettamente che le ricchezze e il potere possono nascondere rovina e morte se non si sanno gestire e non si utilizzano per il bene. Forte di questo modo di intendere sappiamo dalle fonti che in tante occasioni Elisabetta fu un’intrepida conciliatrice parlando al cuore dei diversi rivali in diverse contese.   

San Giovanni da Capestrano

Descrizione:

Il dott. A. Braca scrive che Gianbattista Barberio, in una sua biografia del 1690, riporta un’apparizione della Madonna a san Giovanni che la invocava chiedendo aiuto: “Ella gli apparve in sogno una notte con tazza d’oro nella destra, apprestolla nelle di lui pure labbra con farlo sovrabbondantemente partecipe del liquore celeste la di cui virtù fu tale che ripieno dello Spirito Santo diedesi a conoscenze in qualunque luogo…”. L’episodio raffigurato nel dipinto, a mio parere è la conversione in pittura di quest’episodio. Infatti, la Madre col Figlio bambino, accolta festosamente da un angelo, porge a Giovanni, disteso su di un lettuccio perché infermo, una tazza di latte, che gli dà forza e vitalità perché, sotto l’esortazione di Maria, dovrà combattere contro l’empio sultano Selim, come dice la didascalia. 

Si sa che il santo guidò l’esercito cristiano nel 1456 contro l’armata turca nella battaglia di Belgrado, ma l’allusione a Selim non è esatta, perché questo sultano ottomano detto “il crudele” regnò dal 1512 al 1520. Forse la didascalia e la bandiera rossa (propria dell’esercito ottomano), che si trova nel dipinto dietro due frati estatici di fronte alla visione celeste, vogliono significare soltanto che Giovanni fu protagonista della vittoria contro i Turchi.  Ecco la didascalia: “ Giace lasso Giovanne e chiesto aita/ col suo latte Maria lo serba in vita/ vola, gli dice, presso il tracio soglio/ e dell’empio Selim fiacca l’orgoglio”.  

Commento spirituale:

Nel Giardino Serafico Istorico viene riferito che negli uffici che esercitò san Giovanni da Capestrano molto dilatò la fede cattolica per cui estirpò eresie, pacificò grandi potenti, passò fiumi sopra il suo mantello e operò moltissimi miracoli. Inoltre, rinunziò più volte a vescovadi e camminò sempre per la via dell’umiltà (Cf. p. 296). È stata una vita complessa quella di S. Giovanni, fatta anche di stenti e penitenze, da cui n’è uscito sempre fortificato con l’aiuto della Vergine SS.ma.   

Nelle vele della voltina, nei quattro medaglioni vi è una simbologia che chiarisce ancora meglio l’eroica vita del santo e come la si deve interpretare. Nel tondo più vicino alla parete, si intravede una rupe con cascata che si versa in un lago e dove beve un cerbiatto. Dalla didascalia (Salus et robur – è forza e salute) si comprende che il cerbiatto che si disseta alla fonte, rappresenta l’anima prudente di san Giovanni, il quale bevendo alla sorgente della Verità, è riuscito a fronteggiare i morsi velenosi delle eresie e dei nemici della Chiesa. Proseguendo verso destra si intravede, in un altro medaglione, una tromba. Dalla didascalia (Placida et terribilis – dolce e spaventosa) si capisce che come la tromba è capace di suonare dolci melodie, in tempo di pace e suoni terrificanti in tempi di guerra, così la vita del santo di Capestrano ha potuto far percepire la dolcezza del Dio misericordioso, ma anche la potenza risanatrice della salvezza in tempi più difficili. Indi ci accorgiamo che l’altro medaglione è malridotto e non si comprende né l’immagine né la didascalia. Infine, l’ultimo tondo riporta l’immagine di uno specchio che rifrange un raggio di sole. Dalla didascalia (Tenere quis poterit – chi mai potrà imprigionarlo) si capisce che san Giovanni, forte dell’aiuto di Dio, era invincibile nel difendere la fede e l’amore, per cui possiamo dire che era come uno specchio che faceva riflettere la luce del vero sole che è Cristo. 

  Transito di Santa Chiara

Descrizione:

Alla fine del primo corridoio del chiostro è raffigurato il transito di santa Chiara. La vergine Maria, in un alone di luce celeste, scende dal cielo con quattro vergini in attesa di coprirla dopo morte con un peplo d’oro, come attesta la Legenda S. Clarae nelle Fonti Francescane: “Viene portato dalle vergini un pallio di meravigliosa bellezza, e tutte fanno a gara a servirla, e il corpo di Chiara è lavato e il talamo adornato”.

La madre Chiara, distesa sul letto col volto abbandonato, viene assistita e consolata dalla Madonna, che le sostiene il capo fra le braccia, mentre alcune sorelle clarisse, di cui una le bacia il piede con filiale affetto, appaiono commosse nell’osservare la visione celeste.  La didascalia così commenta: “Langue Chiara d’amor: quindi la sorte/ nel seno di Maria le dié la morte./ Sceso dal ciel di verginelle un coro/ sua salma ricoprì con pallio d’oro”. 

Commento spirituale:

Nel riquadro affrescato, Chiara sembra vivere l’esperienza dell’incoronazione regale ad opera della Vergine, che fu profetizzata nei versi composti dallo stesso Francesco: “Per le povere signore di S. Damiano” (FF 263/1). Nell’ultimo verso (14) si afferma: “Ka multo venderite cara questa fatiga, ka ciascuna serà regina en celo coronata cui la Vergene Maria”. Francesco profetizza  che il cammino faticoso della loro vita sarà ricompensato con la incoronazione regale. 

Anche i due tondi, che sono nelle voltine e che si riferiscono alla santa, vogliono confermare questo fatto. Nel medaglione più vicino  è raffigurata la luna che splende tra le stelle. Dalla didascalia (Fulget in tenebris – brilla nell’oscurità) si comprende che Chiara è quella luna che riflettendo i raggi del sole splende nelle tenebre. Questo è avvalorato da un altro passo delle fonti in cui si afferma che la madre della santa, prima che la partorisse, ebbe una visione in cui le fu rivelato che avrebbe partorito una luce, la quale avrebbe rischiarato l’universo. Nell’altro medaglione, verso destra si scorge una corona di stelle. Dalla didascalia (Vincenti adaptata – conviene a colui che vince) si comprende che Chiara di nome e di fatto, rischiarando con la sua vita le tenebre del male, riceve dalla stessa Vergine Maria la corona destinata ai vincitori, che la santa con grande fatica e passione ha conquistato per essere la sposa del sommo Re dei cieli. (Gli altri due medaglioni sono attribuiti all’Indulgenza plenaria della Porziuncola, dipinta nella parete est del chiostro). 

  1. CHIOSTRO LATO EST

L’indulgenza della Porziuncola

Descrizione:

Sopra l’ingresso della sagrestia è affrescato l’episodio più significativo della spiritualità francescana: l’Indulgenza Plenaria della Porziuncola. In alto e al centro del dipinto si vedono Gesù con la croce e la vergine Madre insieme col Figlio in mezzo ad un gruppo di angeli, uno dei quali mostra un cartiglio segnato dalla scritta: l’Indulgenza Plenaria. Da tutto l’assieme e da alcuni tratti strutturali si rileva che la visione celeste avviene nella chiesetta della Porziuncola. In basso compare l’effigie di san Francesco in ginocchio, che offre a Cristo e alla Madonna un cestino di rose rosse, nate d’inverno in un roveto, dove s’era gettato il santo per salvaguardare la sua casta sequela di Cristo. Sotto così conferma la didascalia: “Francesco nelle spine in cui s’ involse/ nate fuor di stagione le rose colse/ a Cristo e a Maria portate in dono/ le colpe d’un mondo ottien perdono”. 

Commento spirituale:

L’immagine coglie la visione che san Francesco ebbe una notte del 1216, dove ottenne il privilegio dell’Indulgenza Plenaria. Nell’affresco sulla parete, la Vergine con le mani al petto accoglie la richiesta del santo di Assisi, mentre il Cristo impugnando il vessillo della salvezza e indicando un foglio tenuto da un angelo dove vi è scritto:  Indulgenza Plenaria,  concede tale privilegio al Poverello di Assisi.

Due medaglioni nelle voltine sono riferiti a quest’immagine. Nel medaglione più vicino all’affresco sulla parete si nota un sontuoso portale, senza porta. Dalla didascalia (Omnibus patet – è aperto a tutti) si comprende il desiderio che vi era nel cuore di Francesco, quello di far andare tutti in Paradiso. Dio vuole che tutti gli uomini siano salvi, e Francesco lo aveva inteso benissimo per cui, con quella sua richiesta, sembra che volesse spingere veramente tutti gli uomini ad entrare, attraverso quel portale, nella città dei santi. Nell’altro tondo, invece, si scorge una mite pecorella che non si discosta dal suo pastore. Dalla didascalia (Non est decepta – non è ingannata) si comprende che le anime che si affidano al Signore non vengono mai ingannate. Come la pecorella che riconoscendo la voce   segue sicura il suo pastore, così Francesco vuole che gli uomini imparando a riconoscere la misericordia di Dio non si discosteranno mai da lui. (Gli altri due tondi sono attribuiti al transito di santa Chiara dipinto sulla parete nord del chiostro).

Santa Elisabetta d’Ungheria

Descrizione:

Dopo l’episodio dell’Indulgenza Plenaria, ci si trova davanti al riquadro di santa Elisabetta d’Ungheria, una santa di grande spessore serafico, vissuta sulla terra appena ventiquattro anni. Ella, figlia di re e langravia della Turingia, fedele ai doveri del proprio stato di sposa e di madre, mise la sua vita a servizio dei poveri e degli ammalati distribuendo i suoi beni ai bisognosi e curando personalmente i lebbrosi. La santa veniva chiamata “la duchessa dei poveri”. 

A sinistra del dipinto Elisabetta, vestita dell’abito delle clarisse (cosa non storica), distribuisce monete d’argento ad una folla di infelici, assistita da due paggi, uno dei quali sostiene in ginocchio il vassoio pieno di monete. Al centro la Vergine, con Gesù in braccio che porge la mano al piccolo Battista, guarda con affetto e simpatia la santa mentre dona le sue ricchezze agli indigenti. La presenza di san Giuseppe vuole significare che tutta la Sacra Famiglia si compiace amorevolmente della intensa carità di Elisabetta. La didascalia si legge solo a metà: “… e rende a Elisabetta per ciascuno/ il divin divisor cento per uno”.     

Commento spirituale:

Elisabetta d’Ungheria è stata donna, madre e sposa esemplare. Con la sua vita è riuscita ad essere, sull’esempio della famiglia di Nazaret, che vediamo raffigurata nella parte alta dell’affresco,  un vero modello di santità laicale e domestica. Una vita profetica, quella della regina d’Ungheria, che ha trovato sbocco nella contemplazione del mistero dei Cristo e nella testimonianza attraverso gesti concreti di carità e misericordia, come vediamo nell’immagine che la vede protagonista in un gesto di carità fraterna.

Attraverso i simboli ingegnosi nei tondi delle voltine e le sapienti didascalie, comprendiamo ancora meglio la vita di questa donna e delle sue virtù. Nel medaglione più vicino alla parete vediamo uno scettro e una corona. Dalla didascalia (Nihil fragilius – niente di più transitorio) comprendiamo che Elisabetta capì che non vi era niente di più transitorio ed effimero come il potere umano rappresentato dalle insegne regali. Possiamo avvalorare quest’affermazione da un episodio narrato nelle fonti, in cui si dice che quando la regina usciva per andare a Messa con la sua compagna Agnese, portava sul capo una corona d’oro e di pietre preziose, che toglieva entrando in Chiesa per rispetto alla corona di spine del Crocifisso. In un altro medaglione vi è raffigurato un drappo scarlatto e di lino pregiato. Dalla didascalia (Byssus et purpura indumentum eius – la sua veste è di bisso e di porpora) si comprende che la sua vita è impreziosita da un santo eroismo, da una forte devozione e da una tenera ed inesauribile carità per Cristo e i poveri. Tutto questo, non sempre era compreso, soprattutto da quelli della corte che ritenevano questi comportamenti non conformi alle liturgie regali di una regina. In un successivo medaglione, invece ritroviamo raffigurato uno sciame di api che si ritirano da un cespuglio di gigli, girasoli e dalie. Dalla didascalia (Etiam ex amaro – ricavano miele anche da erbe amare) si comprende che come le api sanno ricavare nettare dolcissimo anche da erbe amare, così Elisabetta con la sua operosità ha ricavato nettare prelibato dalle sofferenze acerbe che ha dovuto subire. E questo nettare ha avuto il sapore della devozione dei girasoli, della purezza dei gigli e della gratitudine delle dalie. Nell’ultimo tondo si vede una corona di fiori multicolori. Dalla didascalia (Tempori non subest – non teme l’usura del tempo) si comprende che quella corona, destinata come premio alle anime sante, non è soggetta alle intemperie. Per cui le persecuzioni e le sofferenze vissute dalla santa, e in più le soprabbondanti opere buone, l’avevano temprata e purificata a tal punto che a soli ventiquattro anni fu pronta a raggiungere lo sposo celeste per essere da lui incoronata.  

San Pietro d’Alcantara

Descrizione:

Nel dipinto successivo si osserva san Pietro d’Alcantara in atteggiamento di penitenza, giacché denudato sul dorso egli si flagella fortemente davanti ad una croce alta con un cilizio di ferro, con il quale si infligge ferite sanguinose a tergo della sua persona. La Vergine SS.ma lo guarda con materna misericordia, e il Bambino tra le sue braccia, agitando le manine, sembra quasi che voglia distoglierlo dall’aspra flagellazione. Nelle visioni celesti della Madonna sono sempre presenti gli angeli come in quest’apparizione, ma sotto la croce si nota seduto uno strano personaggio. Forse il pittore vuole ricordare qualche episodio della vita del santo: prima la grande croce, che Pietro fece allestire e portò da solo e con grande fatica sulla sommità dell’altissimo monte della Gatta, un monte inaccessibile e pericoloso, dove la conficcò con l’aiuto degli angeli per l’adorazione dei fedeli;  poi quel personaggio seduto, vestito da militare e con il fucile sulle gambe, che dovrebbe riferirsi alla conversione del capitano spagnolo Don Francesco Floriano il quale, ascoltando una predica dl santo, chiese perdono dei suoi peccati in confessione e cominciò una vita da penitente. La didascalia  è coperta dalla porta di un vano sotto l’arco.  

Commento spirituale:

Secondo i biografi, la penitenza fu la virtù caratteristica di S. Pietro d’Alcantara a tal punto che sottopose il suo corpo a un regime di ferro. Per venti anni portò un cilicio di metallo alle reni le cui punte gli laceravano le carni. Per quarantasei anni si diede due volte per notte la disciplina, dopo il mattutino e all’aurora. Anche santa Teresa d’Avila, sua figlia spirituale, nei suoi scritti parla dell’austerità di questo santo. Ma se il santo fu così severo con se stesso, con gli altri si mostrò dolce e pieno di comprensione. Il tema della penitenza è proprio quello che riguarda il nostro affresco e i quatto medaglioni delle voltine del soffitto.

Nel riquadro vediamo il santo che si flagella alla presenza della Vergine con il bambino, forse un fatto accaduto o un’apparizione. Ciò fa comprendere anche la sua grande devozione alla Vergine Madre che lo guida e lo sorregge nel suo cammino ascetico.  

 Nel medaglione più vicino alla parete vi è rappresentato un mucchio di lana con un battilana. Dalla didascalia (Nitescit verberibus – diventa bianca con le battiture) comprendiamo che, come la lana diventa più candida quando è battuta, così attraverso la vita di penitenza corporale, a cui si sottoponeva il santo di Alcantara, si rendeva splendente della luce di Cristo. Proseguendo nell’altro medaglione vi è raffigurata una corazza ornata da un monogramma della Vergine e  sormontata da una corona regale. Dalla didascalia (In hoc et cum hoc – in questo e con questo) comprendiamo che la penitenza corporale insieme alla devozione e protezione della Vergine Maria hanno aiutato san Pietro a debellare il male. Nel tondo successivo è raffigurato un annoso ulivo su cui è posta una candida colomba. Dalla didascalia (Ut recet ed defendat – per accogliere e per difendere) si capisce che come quest’albero di ulivo, simbolo di pace, accoglie gli uccelli del buon Dio per proteggerli, così san Pietro, ormai pacificato nella sua vita per effetto della misericordia di Dio e della tenera protezione della Vergine, è riuscito ad attrarre a sé e a custodire  tanti uomini e donne desiderosi di imitarlo. Nel medaglione successivo vi è raffigurata una pianta di ortica con un lungo bastone. Dalla didascalia (Vim deserit urendi – perde la forza di pungere) si comprende che come l’ortica se percossa perde la forza pungente del suo veleno, così il corpo mortificato dai colpi della penitenza e della sobrietà  di san Pietro perse la forza di sedurre.  

Santa Caterina da Bologna

Descrizione:

Nella campata seguente santa Caterina da Bologna, mentre sta in coro con le sorelle clarisse, riceve una visione della vergine Maria col bambino Gesù, il quale con la destra in alto la saluta festante. La santa va in  estasi e si solleva da terra nella contemplazione della Madre col divin Figlio. Le monache dagli stalli del coro contemplano l’evento miracoloso, mentre una monaca prega in ginocchio, e un’altra è rapita dalla meravigliosa visione. La didascalia rispecchia fedelmente la scena dell’affresco: “Apre in coro le labbra e verso Dio/ tosto si innalza Caterina a vol/ nell’estasi però stupor non fia/ mentre Gesù magnifica e Maria”. 

Commento spirituale:

Caterina da Bologna è ricordata dai suoi biografi come figlia dell’umiltà. Questo frutto prezioso, la santa, lo ricavò dai lunghi e penosi combattimenti spirituali. Queste sue virtù le meritarono di ricevere l’incarico di guida delle novizie, per dare alle giovani un modello sicuro di vita religiosa. Fu favorita da molte grazie particolari come quella ricevuta la notte di Natale del 1445. Ella stessa  racconta che chiese all’ Abbadessa il permesso di passare la notte Santa nella chiesa del monastero e l’ottenne. A mezzanotte le apparve Maria che teneva tra le braccia il Bambino Gesù, e la Vergine accostandosi a lei le diede il divin Figlio tra le braccia. A noi sembra che l’immagine del chiostro riprenda proprio quest’avvenimento. 

Anche i medaglioni nelle vele aiutano a capire la figura di Caterina.  Infatti, nel tondo più vicino alla parete si scorge una pavonessa che cova una nidiata di sei pulcini i quali protendono ad essa il capo. Dalla didascalia (Alit et tuetur – li nutre e li protegge) si comprende che Caterina, come la pavonessa protegge e nutre i piccoli, così ha fatto lei con le formande ad essa affidate, nutrendole del suo buon esempio e proteggendole con la suo materno affetto. Nel tondo successivo si vedono rappresentati dei cardellini che cantano gioiosi. Dalla didascalia (Melos dant suaviores – cantano con più dolcezza) capiamo che come gli uccellini cantano più soavemente se in gabbia, così le anime consacrate attraverso la vita claustrale riescono ad elevare al Signore soavi canti. Poi nel tondo che segue vediamo un arbusto infiammato. La didascalia (Mortis virus – il veleno della morte) ci rimanda al fatto che la santa, divorata com’era dal fuoco dell’amore divino, difendeva con forza le aspiranti alla vita religiosa, da lei guidate, dalle tentazioni del maligno, al pari dell’arbusto che con il suo fuoco ardente riusciva a difendere le persone dagli attacchi degli animali randagi. Nell’ultimo tondo si intravede una pavonessa con il collo eretto e sguardo vigile che protegge i suoi tre  piccoli. Dalla didascalia (Non nisi adultos – non li lasciano se non adulti) si comprende che, come la pavonessa che protegge i suoi piccoli  e non li lascia andare liberi se non adulti e capaci di volare, allo stesso modo questa sapiente educatrice, che proteggeva e custodiva le sue novizie, le faceva crescere e le rendeva autonome e capaci di affrontare la vita.   

Sant’Antonio

Descrizione:

L’ultimo riquadro del lato est del chiostro rappresenta l’apparizione della Vergine con Gesù bambino a sant’Antonio da Padova. La biografia del santo racchiude molte apparizioni della Madonna, di cui egli era molto devoto e che salutava con dolci titoli: Gloriosa Signora, porta del cielo, giardino di delizie ecc. Le visioni del Bambino Gesù sono un motivo antoniano per eccellenza, perché sono state numerose: nell’eremo di Montepaolo, a Castrocaro, a Limoges e a Camposanpiero nell’abitazione del conte Tiso. Nel dipinto la Madre e il Figlio bambino sono uniti scenicamente nell’apparire ad Antonio che sta in preghiera, il quale in estasi, sollevato da terra su una nuvoletta, accoglie con stupore il Bambinello donatogli dalla Madre, che lo accarezza con la mano destra. 

Il quadro è luminoso e pieno di angeli di vario tipo che guardano al prodigio avvenuto, mentre un uomo osserva la scena da uno stallo del coro. L’uomo potrebbe essere il conte Tiso, il quale una notte vide da una fessura della porta del suo castello il santo assorto nella visione di Gesù bambino in un alone di luce divina.  Inoltre la presenza di due bianchi gigli davanti all’altare vuole significare la purezza di sant’Antonio. E la didascalia lo conferma: “Al padovan che di candore è un giglio/ Maria presenta il suo diletto Figlio/ tante al servo il Padre grazie dispensa/ quante sa farne un Dio pien di clemenza.  

Commento spirituale:

La visione del Bambino Gesù è il motivo iconografico antoniano per eccellenza. Nel nostro riquadro va sottolineato che l’ambiente raffigurato  rimanda ad un’apparizione della Vergine col Bambino avvenuta poco prima della sua morte, in una stanza del castello del conte Tiso, suo amico. 

Anche nei medaglioni vi è una simbologia che fa riferimento al Bambino. In quello più vicino alla parete, si intravede una stella cometa luminosissima che, con la sua coda, tocca il globo. Dalla didascalia (Ima summis – unisce le cose terrestri alle celesti) si capisce che è proprio il Bambino Gesù colui che come quella cometa unisce la terra al cielo. Nel secondo medaglione si vede un ponte munito di parapetto. Dalla didascalia (Distantia iungit – unisce le cose distanti) si capisce che è sempre il Bambino Gesù il protagonista. Infatti, il Bambino di Nazaret è il vero ponte che unisce l’umanità al Padre. Nei Sermoni (dom. V di quaresima) sant’Antonio parla di due sponde, l’una di fronte all’altra: la sponda della mortalità e quella della immortalità, tra le quali c’e un fiume, quello delle nostre miserie. Venne Gesù che fece se stesso ponte tra la sponda della mortalità a quella della immortalità, affinché su di esso, come su di un legno posto di traverso, potessimo passare per possedere i beni futuri.  (Gli altri due medaglioni delle voltine fanno riferimento al riquadro di santa Chiara dipinto sul lato Sud  del chiostro).

  1. CHIOSTRO LATO SUD.

Santa Chiara in contemplazione

Descrizione:

Nel terzo braccio del chiostro, di fronte all’affresco del transito di S. Chiara, se ne scorge un altro che vuole rappresentare ancora la madre Chiara prima della morte. La santa inferma per le continue penitenze fatte per amore di Dio, viene visitata in una visione da Maria e da Gesù e curata in una maniera prodigiosa. Al centro del dipinto ci sono la Madonna con un seno scoperto in atto di offrire il suo latte e il Redentore col petto scoperto come in croce che stringe col braccio sinistro il legno della croce. Sulla destra poi si vede un altare coperto da una nitida tovaglia, con due angioletti seduti sui gradini, che fa supporre che la visione avvenga in una cappella. Santa Chiara in ginocchio è in estasi davanti alla celeste apparizione, viene nutrita dal sangue del costato di Cristo e dal latte del seno di Maria per mezzo di un angelo bello e sgargiante. È un farmaco divino, che senza dubbio le dona forza e vitalità, soprattutto nel corpo debilitato, perché lo spirito è pronto ma la carne è debole. Ecco la didascalia che così commenta: “Della venuta Chiara è gran fortuna/ ber dal cielo le due bevande in una/ Cristo il sangue le dona/ e dalle intatte poppe Maria le dà copia di latte”.    

Commento spirituale:

Santa Chiara ha vissuto la sua vita infiammata dall’ardore della carità per il suo sposo, contemplando le ricchezze delle sue virtù. Nello stesso tempo ha camminato sulle orme della Madre di Dio che ha assunto come modello di vita per se e le sue sorelle. Nel nostro riquadro la vediamo in contemplazione nutrita dal sangue del Redentore e dal latte della Vergine, che rinnovano la sua vita nella sua infermità.

 Nei due medaglioni che la riguardano nelle vele, vediamo in un primo, un rametto di corallo rosso-cinabro sulla sponda del mare. Dalla didascalia (Aestum [Aestus] genas ornat – l’interno ardore rende porporine le guance) si comprende che il fuoco d’amore che Chiara aveva per Cristo crocifisso e risorto era così evidente nella sua vita a tal punto che traspariva anche  attraverso il rossore delle gote, come avviene per le ragazze vicine al loro innamorato. Nell’altro tondo si scorge uno sciame di api che succhia nettare da fiori. Dalla didascalia (lacte mellificant – col nettare producono dolcissimo miele) si capisce che Chiara d’Assisi chiamata da alcuni biografi ‘apis argumentosa – ape industriosa’, nutrendosi del sangue di Cristo, come vero nettare divino, e del latte della Vergine, ha trasformato la sua vita e ha prodotto miele gustosissimo attraverso la carità vissuta con le sue sorelle e con tutti coloro che a lei si avvicinavano.  

San Bonaventura 

Descrizione:

San Bonaventura, il dottore serafico, viene raffigurato con la porpora di cardinale nel suo studio, dove sulla destra si vede un nutrito scaffale di libri, che vogliono significare la sua elevata dottrina teologica fondata sull’amore, e sulla sinistra ci sono due angioletti che sostengono il suo pastorale vescovile tra le mani. Al centro si vede la vergine Addolorata con sei spade che dall’alto le trafiggono il cuore e con il Figlio morto disteso sulle sue ginocchia, mentre al suo fianco viene consolata da un angelo del cielo. Ella si rivolge con lo sguardo e col braccio sinistro verso il santo, il quale è trafitto anche lui da una spada (la settima) che parte dalla Madre del Crocifisso. Si nota nel dipinto un certo dialogo forse interno tra la Madonna e san Bonaventura, il quale per il dolore della ferita ricevuta esclama: “Quaero matrem et invenio vulnera – cerco la madre e trovo le ferite”. Questa scritta, poco lucida ma che diventa chiara nell’ingrandimento, comincia dal braccio sinistro di Maria e termina sulle labbra del santo, volendo significare il suo dolore e il suo amore verso l’Addolorata e il Figlio trafitto, come dimostrano i suoi scritti densi di ardore serafico. Ecco la didascalia: “A Cristo estinto ed a Maria dolente/ volge il dottor serafico la mente/ e nel pregar la Madre e il caro pegno/ d’un dolor di quella è fatto degno”.   

Commento spirituale:

San Bonaventura, sull’esempio del Serafico Padre Francesco, tra le tante cose,  accrebbe nell’Ordine la devozione alla Madre di Dio. Nel Capitolo di Narbona prescrisse la recita di un antifona alla Vergine a Compieta e nel Capitolo di Pisa istituì nell’Ordine la festa dell’Immacolata Concezione. Inoltre, per onorare in Maria i privilegi della sua maternità e verginità diffuse la pratica dell’Angelus Domini che ben presto si estese in tutta la Chiesa. Dunque, ebbe un amore per la Vergine eccezionale e ciò è evidente in tanti suoi scritti sia teologici che spirituali. 

L’immagine di Bonaventura con la Vergine, che abbiamo nel chiostro, è inconsueta e certamente rappresenta una devozione non tipica del Medioevo, ma dell’era moderna. Comunque ci permette di fare una riflessione ancora più profonda sulla devozione del santo alla Vergine.  

Il Dottore Serafico nel commento al Vangelo secondo Luca (II,I, pp.77-78) spiegando il versetto “e una spada trapasserà la tua anima” fa riferimento al martirio della compassione della Madre. Afferma che sei spade trafiggono l’anima devota che rappresentano sei virtù. Nella nostra immagine del chiostro viene rappresentata anche una settima spada che parte dalla Vergine e raggiunge il santo e questo suggella la devozione di Bonaventura al martirio di Maria.

Anche nei tondi delle voltine si fa riferimento alla  devozione mariana del santo. Nel tondo più vicino alla parete vediamo cinque girasoli che sono rivolti verso il sole. Dalla didascalia (Ad me conversio eius – a me sono rivolti) si comprende che come nel Cantico dei cantici la sposa sente rivolta a sé la brama dello sposo, così la Vergine Madre di Dio avverte la brama del santo dottore a lei rivolta. Nel secondo tondo si vede una bilancia con due piatti e su ognuna una spada. Dalla didascalia (Amor et dolor – amore e dolore) capiamo che le due tipologie di spada che accomunano il martirio della Vergine e quella del Figlio sono quella dell’amore e del dolore. In un terzo tondo si vedono dei fiori battuti dalla tempesta. Dalla didascalia (Post haec vernat flos – dopo la tempesta spunta il fiore) si capisce che, come dopo la tempesta rinasce la vita, così dopo la tempesta mortale che ha dovuto subire il Cristo crocifisso viene a noi la vera vita dalla sua risurrezione. In un ultimo tondo si intravedono due specchi tra i quali scocca una freccia. Dalla didascalia (Geminat dolorem – il dolore dell’uno genera  il dolore dell’altro)  si capisce che il dolore del Figlio di Dio genera il dolore della Vergine, così che la passione vissuta nel cuore da Maria è così intensa e intima a quella del Figlio che guardando a lei si comprende bene il martirio e la passione di Cristo per tutti gli uomini.

Santa Rosa da Viterbo 

Descrizione:

La biografia di santa Rosa da Viterbo narra che la giovinetta a un certo punto della sua adolescenza, sentì vivo il desiderio della consacrazione claustrale, ma le Damianite (così si chiamavano le clarisse vivente S. Chiara) respinsero la sua richiesta, ed ella rimase soltanto terziaria francescana vivendo nel mondo. Di lei si racconta anche che a diciassette anni, ammalatasi gravemente, fu guarita miracolosamente da Gesù che le apparve crocifisso, e la esortò alla dolorosa meditazione della Passione. Nel dipinto a sinistra vediamo la madre che prega fervorosamente per la guarigione della figlia Rosa già giovinetta e gravemente inferma, e in alto un gruppo di Angeli che pare partecipino al dolore materno. Al centro della scena avviene lo sposalizio mistico di Rosa. La Vergine santa con il Bambino, circondata da numerosi angioletti, attira la santa con il braccio verso Gesù, che con la mano destra le pone al dito l’anello nuziale. Rosa viene presentata con l’abbigliamento di clarissa, ma storicamente si conosce che, nonostante il suo desiderio, non poté entrare nel monastero clariano. Forse nel dipinto si rappresenta il suo desiderio di essere clarissa. La didascalia conferma il tutto: “Egra già Rosa da mortal periglio/ la liberò della convalle il giglio/ e di perfezione fatta maestra/ con l’anello Gesù le dà la destra.

Commento spirituale:

Una vita, quella di Rosa, breve ma intensa.  Infatti, con le sue eroiche virtù e i suoi prodigi riconduce i suoi concittadini all’amore di Dio e alla fedeltà verso la Chiesa e alla vera pace.

Dai medaglioni nelle voltine è possibile ricavare alcuni aspetti della sua sensibilità. In quello più vicino alla parete intravediamo due palme intrecciate. Dalla didascalia (Casti coniugii fecunditas – fecondità del casto matrimonio) comprendiamo che la santa vivendo questo matrimonio mistico con lo sposo celeste è risultata feconda di prodigi intrecciati con straordinarie virtù.  Nel secondo tondo si vede un anello d’oro con una perla preziosa. Dalla didascalia (Fidei amorisque signaculum – simbolo di fedeltà e di amore) si intuisce che si fa riferimento allo stesso anello che il  Bambino Gesù le pone al dito nel riquadro, che diventa segno e simbolo della fedeltà eterna e dell’amore di Dio a questa sua figlia, sposa di Cristo. In un successivo tondo si scorge un bianco cigno che segue con lo sguardo tre altri cigni che volano cantando. Dalla didascalia (Deducent canentes – attireranno uomini e cose con il canto) si capisce che, come i cigni attirano a sé col canto l’ammirazione di tanti uomini, così la santa di Viterbo ha attirato a sé, grazie al canto della sua esistenza, tante persone desiderose di imitarla. Nell’ultimo tondo vediamo una colomba che porta nel becco un ramo di ulivo. Dalla didascalia (Divinae nuntia pacis – messaggera della pace divina) comprendiamo il riferimento noetico della colomba lanciata dall’Arca che ritorna con un ramo di ulivo nel becco segno di vita e di pace. Così Rosa,  lanciata da Dio ad annunciare il Vangelo, distribuiva a tutti il pane della divina Parola, sollevava i miseri, e portava pace a tutti quelli che incontrava. Infatti, da testimonianze si sa che la santa produsse frutti meravigliosi di pace soprattutto nella sua città, che era in preda all’empietà e all’eresia.

San Bernardino da Siena 

Descrizione:

Il pannello di san Bernardino è un pannello particolarmente significativo, perché ricorda due fatti rilevanti della sua vita: il casto amore alla Madonna e il culto al SS. mo nome di Gesù. 

Giovanissimo, rimasto orfano e cresciuto da una zia a Siena, diventò molto devoto della vergine Maria, che egli ogni giorno andava a salutare presso la porta Comollia, dove si trovava un’edicola mariana. Al centro del dipinto si vede frate Bernardino in ginocchio e in estasi davanti all’apparizione della Madonna con il bambino Gesù, mentre sulla destra si pensa che tra gli archi e le colonne sia rappresentata la porta Comollia. Ci sono due iscrizioni, che sottendono un certo dialogo tra la Vergine e san Bernardino. Il Santo confessa la sua devozione a Maria con una frase poco chiara e non completa: “Hanc… feci sponsam a juvetute mea – questa la feci sposa fin dalla mia gioventù” (così legge il dott. Braca), frase che rispecchia la confessione del suo segreto mariano alla zia: “È piaciuto al Signore d’ispirarmi, sin dai miei più teneri anni, un’ardente amore alla sua divina Madre e l’ho amata di un amore singolare”. Indi la Vergine gli risponde: “In hoc signo vinces – in questo segno vincerai”, indicando l’angelo che regge il monogramma del nome di Gesù: IHS, che il santo circondava di raggi a guisa di sole nel suo ministero apostolico. La scena si chiude a sinistra con la veduta della città di Siena, dalla quale un angelo scaccia il demonio. La didascalia: “Trascelse Bernardin per sua diletta/ Maria che fu con purità concetta/ di Gesù quel santo Nome inventa/ con cui satanno e li malori annienta”. 

Commento spirituale:

San Giacomo della Marca nel discorso scritto e pronunciato alla morte di san Bernardino, rievocando la sua delicata fanciullezza, scrive che il santo senese ogni giorno si recava alla Chiesa di san Francesco a pregare di fronte all’immagine della Vergine e molto spesso tornava tardissimo giustificandosi di essere stato dalla sua amorosa e intendeva dire la Vergine Maria. ( U. Picciafuoco, S. Giacomo della Marca, pp.119-120). Dunque, aveva una devozione veramente forte nei riguardi della Madonna, che lo ha portato a ricondurre i popoli a Cristo, soprattutto attraverso l’adorazione al SS. Nome di Gesù. Infatti, nell’immagine che abbiamo nel chiostro lo vediamo in dialogo con la Vergine che meglio gli fa comprendere il mistero di Cristo racchiuso nel famosissimo monogramma JHS.

Nei tondi delle voltine troviamo diversi elementi che ci fanno comprendere bene la sua spiritualità. In quello più vicino alla parete vediamo cinque lampade su ricchi candelabri. Dalla didascalia (Ut luceat omnibus – per illuminare tutti) si capisce che come queste cinque lampade illuminano tutto l’ambiente, così la luce promana dal nostro santo senese, e soprattutto quella che esce dalle sue parole e dal suo esempio di vita illumina tutti gli uomini. Nell’altro tondo si vede un cannone che lancia proiettili e fiamme. Dalla didascalia (Fulgore et ictu – sbaraglia con la fiamma e col colpo) si comprende che col cannone  si scuote e si colpisce il nemico,allo stesso modo Bernardino ha scosso e illuminato le menti di tanti uomini con la Parola, che diventa il colpo vitale per gli uomini, che non porta morte e distruzione , ma vita nuova e pacificazione (Gli altri due tondi sono attribuiti a santa Coleta dipinta sul lato ovest del chiostro).  

  1. CHIOSTRO LATO OVEST.

Santa Coleta

Descrizione:

Nella prima campata dell’ultimo braccio del chiostro viene raffigurata la francese santa Coleta, la quale, in onore di san Nicola di Bari, aveva ricevuto il nome di Nicoletta e familiarmente veniva chiamata Coletta. Per rivelazione conobbe il genuino spirito francescano, per cui prima divenne terziaria francescana, ma poi fece la professione religiosa di santa Chiara nelle mani del Papa Benedetto XIII, che la nominò badessa generale con l’autorizzazione di una riforma per tutti i monasteri da lei fondati e acquisiti, anche del I Ordine. La sua vita è pervasa di fatti straordinari: estasi, lievitazioni, strepitosi miracoli, persino nei suoi continui viaggi. 

Il dipinto pone in evidenza uno di questi viaggi, nel quale Coletta, con un gruppo di consorelle, si disperde in una selva incapace di uscirne fuori. Ma la vergine Maria col bambino Gesù, in veste rossa e con il manto azzurro svolazzante appare alle monache in tutta la sua luce solare, indicando loro il cammino da seguire per arrivare alla meta. Sulla destra un gruppo di agricoltori, pieni di meraviglia guarda l’evento celeste. La didascalia è chiara solo nella seconda parte: “…/ ma entro i boschi mentre va smarita/ scorta le fa Maria di sol vestita”.

Commento spirituale:

Santa Coleta aveva una fervida devozione per la Vergine Maria e la riteneva protettrice sua e delle sue figlie. Ciò si comprende bene dalla scena presente nell’affresco sulla parete dove Maria sembra proteggere il gruppo di clarisse disperso nel bosco della Savoia. Può essere interpretato come un fatto occasionale, ma anche come fatto continuativo dovuto alla sua attività riformatrice nell’ Ordine delle Clarisse. 

Nei tondi noi troviamo confermate queste affermazioni attraverso la simbologia presente. In un primo tondo troviamo la cappa del pellegrino e il bastone per il viaggio. Dalla didascalia (Vitae viam pandunt – aprono il sentiero alla vita) si capisce che questi strumenti sono di aiuto nel cammino, come sono stati utili nel cammino della vita di santa Coleta le virtù che ha indossato e la croce che le è servita per reggersi dalle cadute durante il viaggio. Nell’altro tondo si intravede una colonna maestosa con un ricco capitello. Dalla didascalia (Induenti fidelis – non viene meno a colui che vi si appoggia) comprendiamo che come la colonna rimane fedele a colui che si lascia da essa sorreggere, così Maria Vergine è stata colonna stabile che ha sorretto e protetto la santa durante tutto il suo cammino. (Gli altri due tondi sono attribuite a san Bernardino dipinto sulla parete sud del chiostro).

San Diego

Descrizione:

I frati minori della Provincia religiosa di Principato avevano molta devozione a san Diego, che era titolare del convento francescano di Napoli, che prima era chiamato Ospedaletto, poi di san Gioacchino e infine di san Diego. Bisogna ricordare che P. Gioacchino era stato in questo convento lettore di teologia e Ministro Provinciale, prima di essere eletto Guardiano del convento di Nocera. Quindi è probabile che questa devozione abbia condotto l’ideatore degli affreschi del chiostro a dedicarne uno a san Diego, che era un santo spagnolo di umile origine e fratello laico senza cultura. 

Al centro del dipinto si scorge l’altare, rivestito da candida tovaglia, e dietro di questo il quadro della vergine Maria col Bambino in braccio, davanti al quale arde una lampada ad olio. San Diego unge con l’olio benedetto un cieco e uno storpio, che sono guariti prodigiosamente, mentre un infermo guarito prima bacia un piede del santo per gratitudine, e dietro il santo un altro che con gli occhi attenti aspetta il suo turno in attesa di essere miracolato. San Diego, canonizzato da Sisto V nel 1588, è stato per l’Ordine e per la Spagna un grande taumaturgo che, pieno di Dio, stendeva la sua mano per guarire gli infermi. La didascalia pone in risalto questa sua carità verso gli ammalati: “Orbi Diego risana ed egri oh! quanti/ coll’oglio ch’a Maria brucia davanti/ bisognosi ancor lieto sovviene/ col pane e vino che da divoti ottiene”.  

Commento spirituale:

Secondo i biografi, la Vergine Maria era onorata come sovrana, invocata come protettrice, amata come madre da S. Diego. Spesse volte guariva i malati ungendoli con l’olio della lampada che ardeva davanti all’immagine della Vergine per così attribuire a Maria i miracoli che faceva egli stesso. Proprio tale fatto è riportato dal pittore nell’immagine a lui riservata nel chiostro, dove vediamo il santo di Alcalà alle prese con degli storpi da sanare.

 Nella sua vita brillavano tutte le virtù che san Francesco raccomandava ai suoi discepoli e ciò viene ripreso anche dalla simbologia presente nei tondi delle vele delle voltine. 

In un primo medaglione, quello più vicino alla parete, viene ritratto un pesco carico di frutti ancora acerbi. Dalla didascalia (Tandem dulcescent – infine matureranno) comprendiamo che il pesco, che nella simbologia viene indicato come albero della salvezza, è carico di frutti ancora acerbi, che pian piano diventeranno maturi e succosi per essere mangiati; così la vita dell’uomo per raggiungere il culmine deve passare per le acerbe sofferenze dell’esistenza. In un altro tondo si vede una fonte d’acqua viva che scaturisce da una roccia. Dalla didascalia (Ut indeficienter sanet – sgorga perenne per il sollievo dell’umanità) comprendiamo che Maria è la fonte vivace a cui attinge S. Diego per giungere alla perfetta carità di Cristo Signore. Nell’altro tondo si vede un orto cinto con un grande portale senza porta. Dalla didascalia (Nemini clausus – non è chiuso a nessuno) si capisce che la bontà divina non è chiusa a nessuno, tanto che S. Diego diventa un canale formidabile che fa scorrere verso i fratelli la misericordia, che come fiume in piena invade le città degli uomini. Nell’ultimo tondo si scorge un vistoso scrigno. Dalla didascalia (Felicis sortis haerarium – tesoro della bontà futura) capiamo che la carità che S. Diego riceveva non la teneva per sé, ma la distribuiva ai poveri e ai bisognosi, consapevole che l’elemosina fatta per amore di Cristo è una sorgente di benedizione.     

Santa Margherita da Cortona

Descrizione:

Il terzo affresco successivo è stato distrutto dal terremoto dell’1980 e anche per i lavori di riassetto del chiostro. È rimasto soltanto il ricordo di una fotografia nella quale si vede raffigurato il deliquio estatico di santa Margherita da Cortona. Ella è sostenuta da due angeli e consolata dalla vergine Maria, che si intravede col Bambino in braccio nell’alto della scena. 

La santa, poiché fu ammessa nel Terz’Ordine francescano e fu guidata dai frati, viene chiamata la Maddalena serafica. Infatti, dopo i suoi trascorsi di gioventù con un giovane di Montepulciano che morì tragicamente ucciso, Margherita, scossa dalla grazia divina, si convertì a Dio e visse una vita di povertà e di dura penitenza sino alla fine della sua esistenza. Ecco perché nel pannello la santa, sorretta da due angeli tiene nella mano sinistra un cilicio di ferro, col quale si flagellava aspramente in continuazione. Infine ai suoi piedi si notano due bimbi, che dovette avere dal suo convivente; però la sua biografia parla di un solo figlio. 

La didascalia si legge a metà: “nel mar di colpa Margarita immersa/ sotto i flagelli più gran sangue versa”. 

Commento spirituale:

Santa Margherita da Cortona, penitente del Terz’Ordine, è una di quelle anime elette da Dio per testimoniare a tutti l’infinita misericordia del Padre. Nell’immagine che era dipinta nel chiostro (ormai non più visibile) viene sintetizzata la sua vita alla luce della conversione. Una vita di penitenza e di intimità col suo Signore e con la sua Madre poverella risulta evidente nella scena che la ritrae in estasi e con il cilicio tra le mani. 

Attraverso i tondi delle voltine riusciamo a capire ancora di più tutto questo amore per Cristo e per Maria vergine. Nel primo tondo si vede una collana di perle. Dalla didascalia (Aurorae lachrymae terrae gaudium – lacrime dell’aurora gioia della terra) si capisce che, come le perle che si formano, secondo il mito, all’aurora nella conchiglia e sono considerate la rugiada della terra, così la vita di Margherita riscaldata dalla luce della vera aurora, che è Cristo Signore, è stata rugiada brillante e gioiosa per il suo tempo. Nel medaglione successivo si vede una scala a pioli che porta verso l’alto. Per comprendere la didascalia (Ad astra parat viam – prepara la via al cielo) possiamo fare riferimento a quanto il Signore in una rivelazione le annunciò.  Infatti, le fu detto che con il suo esempio di penitenza sarebbe stata una scala di conversione per i peccatori. (Legenda IX). In un medaglione successivo si vede un cammello accovacciato che attende che sia completo il suo carico per rialzarsi. Dalla didascalia (Donec aequetur pondus – aspetta che il peso sia adeguato alle sue forze) si comprende che il cammello in ginocchio rappresenta Margherita la peccatrice che, colmata la misura dei peccati, si rialza dalla colpa per vivere nella penitenza e nella grazia di Dio.  In un ultimo tondo si vede una conchiglia che lascia intravedere la perla in essa racchiusa. La didascalia (Gestat in utero margaritam – porta in sé una gemma preziosa) ricorda le parole di Gesù che, in un’apparizione le diceva: “Tu sei una margherita – una perla presso Dio, vermiglia e di bianchezza abbagliante in virtù del mio amore”. La penitenza ha fatto nascere in lei la gemma preziosa di santità. 

San Pasquale

Descrizione:

Il dipinto, danneggiato e rimaneggiato, raffigura san Pasquale Baylon, di nazione spagnola che rifiutò di accedere al sacerdozio preferendo di rimanere semplice fratello religioso nell’Ordine francescano. Il santo si distinse nella sua grande devozione alla santissima Eucarestia, per cui fu dichiarato dal papa Leone XIII patrono dei congressi eucaristici. 

Nel pannello in alto Maria indica a fra Pasquale, assistito da due robusti angeli, l’ostensorio con l’Ostia santa, da cui si sprigionano intensi raggi di luce che cadono sul santo in estasi. La scena avviene in aperta campagna, il che vuole significare che san Pasquale da ragazzo era un pastorello addetto alla custodia del gregge. La didascalia è a metà: “Quel Dio che a mal è morte al buon è vita/ al suo Pasqual Maria velato addita”.

Commento spirituale:

L’intensità religiosa di san Pasquale Baylon non è di facile comprensione. Essa si svolge tra il fervore ardente per Gesù Eucarestia e la carità verso il prossimo, come in una sinfonia meravigliosa che delizia il cuore di chi ascolta. Pasquale è inteso come il santo della SS. Eucaristia perché il suo cuore, la sua mente, il suo sguardo erano sempre rivolto al mistero del Corpo di Cristo. Ciò è evidente nell’immagine del chiostro che lo riguarda, oltre che nella simbologia delle voltine corrispondenti. 

In un primo tondo vediamo un pellicano che si squarcia il petto per nutrire i suoi piccoli attraverso il suo sangue. Dalla didascalia (Amoris aestus – fiamma d’amore) comprendiamo che il pellicano è stato da sempre il simbolo del supremo sacrificio di Gesù che salendo in croce si è immolato versando il proprio sangue per nutrire l’umanità. Un nutrimento che continua attraverso il dono del pane e del vino che diventano sull’altare Corpo e Sangue per la vita eterna. In un successivo tondo si vede una mensa riccamente imbandita. Dalla didascalia (Regales dat delicias – offre vivande degne dei re) si comprende il richiamo all’altare su cui quotidianamente si riceve la deliziosa vivanda regale che rinfranca i cuori. In un altro tondo si vedono uccelli che volano festosi incontro al sole che sorge. 

Dalla didascalia (Cantabimus et psallemus – canteremo salmodiando) si capisce che gli uccelli volando cantano gioiosi, e rappresentano le anime degli uomini, che volano verso il Sole divino cantano lodi di ringraziamento per il dono dell’Eucarestia. In un ultimo medaglione vediamo una palma carica di datteri. 

Dalla didascalia (Victui abunde – provvede abbondantemente al nutrimento) comprendiamo come la palma, ricca di datteri, provvede in maniera copiosa al nutrimento dei corpi, così Gesù Eucaristia nutre abbondantemente le anime dei fedeli e dei santi, come è stato per san Pasquale  nella sua vita eucaristica.

  1. APPENDICE

P. Pietro Antonio, nel suo primo volume Giardino Serafico, scrive che “San Bernardo ebbe ragione di chiamare i Cardinali della Chiesa di Cristo: Seniores populi, Iudices orbis, poiché il consesso dei Porporati non era altro che un augusto Senato di uomini scelti per aiutare col consiglio e con l’opera il Vicario di Cristo in tutto il mondo cristiano.

Nelle scelte papali anche l’Ordine Francescano ebbe lungo i secoli dei frati dotti e santi, elevati all’alto onore di essere cardinali e pontefici di santa romana Chiesa, che dal secolo XIII al secolo XVI sono del numero di quattro Sommi Pontefici e di sessantadue Cardinali. In questo spazio di tempo, tenendo presente che il nostro convento è stato fondato nel 1589, nel nostro chiostro sono stati raffigurati in medaglioni: quattro papi e diciotto cardinali francescani.

Unica eccezione, dopo il completamento del chiostro, è stato l’inserimento di un frate eminente della Provincia di Principato: il P. Serafino Cimino.

Infatti, il 5 maggio 1929, fu scoperto nel chiostro il medaglione di Mons. Serafino Cimino. Il M.R.P. Ambrogio della Torre, nel discorso di occasione così inserì questa nobile figura tra i grandi figli dell’Ordine Francescano affrescati nel chiostro: 

“Qui sulle pareti dei questo chiostro, che sorregge ancora l’antica sua stanzetta … egli si formò a quella scienza e a quella pietà che lo condussero così in alto nelle gerarchia dell’Ordine e della Chiesa; qui in questo chiostro dove egli soleva passeggiare con gli amici, i confratelli e maestri ancora viventi; qui tra queste pitture e tra questi illustri francescani sta al suo posto”.

Il medaglione raffigura il P. Serafino Cimino in abito francescano e con la croce pettorale di Vescovo, e con una epigrafe illustrativa, che noi descriviamo in lingua italiana: Eccellentissimo e Reverendissimo P. Serafino Cimino di questa gloriosa provincia di Principato, Arcivescovo di Cirro, ex ministro Generale dell’Ordine, Nunzio Apostolico nella Repubblica del Perù (n. 1875 1928). 

L’affresco, situato sul pilastro angolare prossimo all’entrata, fu eseguito dal M° Paolo Trevi, genero del pittore Domenico Morelli. 

P. Serafino è stato un frate straordinario di una brillante carriera nell’Ordine Francescano e nella Chiesa, il più illustre figlio della Provincia di Principato, una delle glorie più fulgide nella storia dei Frati Minori. 

  1. CONCLUSIONE

Il chiostro è il cortile di un monastero, contornato da portici, ed è un recinto appartato e solitario, dove si svolge la vita monastica. C’è un detto che dice: Cercare la pace del chiostro. Poiché il nostro chiostro di santa Maria degli Angeli offre agli osservatori non soltanto un momento di solitudine, ma anche un senso di raccoglimento e di contemplazione mediante la visione di immagini di santi e frati illustri per dottrina e santità, senza dubbio il loro esempio suscita negli astanti sentimenti di ammirazione e di pietà, che sono i presupposti per una possibile meta di pace. Nella solitudine si trova Dio, che è la vera pace di quelli che lo cercano.

Nel concludere questo percorso singolare  nel chiostro, dopo la descrizione pittorica e il relativo commento spirituale riguardo ai santi francescani offerti nei dipinti, dei quali è stata messa in evidenza la tenera devozione verso Santa Maria degli Angeli, vogliamo donare a tutti come augurio e speciale ricordo il saluto di san Francesco: Il Signore vi dia la pace (FF 1619). 

La pace, intesa dalla Chiesa, è la pace messianica, ossia la somma di tutti i beni donati a noi dalla risurrezione di Cristo: pienezza di vita, perfezione e gioia, comunione con Dio e con i fratelli. La pace è un dono di Dio ma, è anche un valore umano da realizzare sul piano sociale e politico. Diceva Papa Giovanni XXIII: “La pace è fondata sulla verità, la giustizia, la libertà e l’amore, che sono i quattro pilastri della casa della pace”. Senza la pace il mondo va in rovina. Perciò noi, come cristiani abbiamo il compito di costruire la civiltà della pace, che costituisce il centro e la gioia della vita umana. 

Questo è l’augurio finale e francescano: Il Signore vi dia la pace!     

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